Dove stanno le ragioni balorde di questa e di tutte le guerre?
Comprendere non è giustificare, è lottare contro le guerre.
Essendo la poesia una forma d’arte, non ho avuto remore a farne uso in questo sito, che è anche un tentativo di auto-terapia e, nello stesso tempo, un modo di formulare proposte paradossali, che per abitudine si tende a chiamare utopie. Considero curativo lo stesso sforzo di continuare a scrivere, pensare a certi temi. La guerra è un tema impoetico, ma oggi mi sembra il più importante.
Dove si trovano, mi sono chiesto, come han fatto in tanti, le ragioni balorde di questa, e di tutte le guerre? E’ una domanda di fondamentale importanza che riguarda gli esseri umani e li definisce, così come sono emersi dai primati e soprattutto come sono diventati oggi.
Un collega intelligente sostiene che noi oggi non siamo molto diversi dai cavernicoli e mi pare abbia ragione; tuttavia, credo che si debba praticare il più possibile modestia, tener a mente il monito socratico del sapere di non sapere, se si preferisce lo stesso monito rivisitato nel tempo – ad esempio, da Karl Popper – ammettendo che sappiamo ben poco, del nostro presente e del futuro, così come del nostro passato remoto. Tanto poco che quanto sappiamo non basta mai a prendere le decisioni giuste riguardo al futuro anche immediato, in termini sociali e politici. E i cavernicoli temo persino guerreggiassero meno di quanto si faccia oggi.
Credo che si incominci a sapere qualcosa dei cavernicoli solo da qualche anno. Precisamente, credo che si incominci a sapere scientificamente come siamo diventati umani, a partire da primati pre-cavernicoli, da 3-4 anni (cfr. al riguardo Il paradosso della bontà. La strana relazione tra convivenza e violenza nell’evoluzione umana di Richard Wrangham, allievo di Jane Goodall, prima edizione originale e prima edizione italiana, Bollati Boringhieri 2019).
Credo anche che siamo diventati di recente peggio di come eravano i primi umani usciti dalle caverne: peggio rispetto alla facilità di distruggere, che rischia di confonderci, di fronte alle evidenze lampanti del nostro iperbolico e schizoide successo biologico come specie; siamo messi peggio rispetto alle nostre capacità distruttive, oggi totali, che fortunatamente non erano affatto tali all’inizio, né in un recente passato. Le capacità distruttive umane hanno raggiunto il loro apice con l’era atomica, in cui per ora sopravviviamo.
Consolazione è data dal fatto che la guerra, che ha funzionato rispetto ai propri bestiali scopi fino a poco fa, in un sistema complesso per iper connessioni globali pur distorte, davvero, finalmente, non funziona più. E’ un motivo in più, non essendo bastati tutti gli altri, per pensare di nuovo e seriamente di abolirla come categoria dell’essere (dis) umano, che resterà disumano comunque ancora a lungo, ammesso che sopravviva alla propria predatoria capacità di danno inferto alla biosfera.
Altra consolazione è data dal fatto che, come son cresciute le capacità distruttive, son cresciuti i sistemi tecnici e tecnologici capaci di risolvere molti problemi che causano pericoli al nostro vivere odierno, pieno di benessere, straordinariamente migliore per alcuni, in termini materiali, di quello dei cavernicoli.
Al benessere, ai diritti e alla libertà ci si abitua così facilmente che si abbassano le difese e la vigilanza necessaria a mantenersi sani e a vivere una vita piena. Quel che non pare evoluta è la capacità di proporre, più che ideologie o teorie o spiegazioni sui fatti, modi per cambiare e rendere efficace l’opposizione alla guerra e alle violenze, che rovinano e svuotano la vita. Essendo la guerra antica come le società umane, rivisitare ipotesi sull’origine dell’attitudine a guerreggiare può servire.
Per quanto plurimillenaria sia questa domanda, oggi si richiedono abbozzi di risposte nuove, aggiornati al presente. Abbozzi di risposte nuove senza i quali è lecito sospettare che il genere umano non abbia più alcun futuro nella biosfera malata d’uomo.
I sentimenti e le relazioni tra umani sono stati rapidamente trasformati ed appena ulteriormente compromessi dal COV2, e già ulteriormente si deteriorano con nuove guerre, inedite per il modo in cui proseguono, a ritmi di sanzioni, di superficiali ‘botta e risposta’ mediatici: finzioni quotidiane piene d’invenzione distruttiva, basti pensare (di nuovo, lite motive impoetico) al dar fuoco al gas da parte di chi lo produce pur di danneggiare il presunto avversario sanzionante. Al via libera a speculazioni iperboliche in Olanda, in grado di arricchire alcuni e lasciar morire di freddo altri.
I sentimenti diffusi suggestionano, mostrano il loro mutamento globale come cause ed effetti della guerra stessa, ma forse questa non è la novità, credo abbia riguardato sia la prima che la seconda guerra mondiale, e il bisogno di suggestione è forte in tutti.
La novità piuttosto, è in direzione di un’indifferenza – inaridimento, quasi l’indifferenza e l’aridità fossero cure palliative, temporanee difese dal senso di impotenza che si produce di fronte al regresso della civiltà occidentale impantanata in misere contraddizioni.
I dilemmi etici che si dovrebbero affrontare e diversamente risolvere non hanno precedenti e non sembrano rispondere ad alcuna posizione alternativa. Nessuna via d’uscita capace di contrastare il peggioramento della distruttività di homo sapiens/necans sembra intravisto all’orizzonte russo-ucraino. Siamo forse già irrimediabilmente mutati nella nostra incapacità di provare sentimenti, oltre che nella enorme crescita di capacità distruttive per vie tecnologiche? Non credo.
C’è una profonda verità nell’affermazione di Gunter Anders per il quale ‘L’odio è ormai antiquato’.
Lo stesso vale per le affermazioni di Luigi Zoja che riflette profondamente su ‘La morte del prossimo’, nel suo libro omonimo. Tuttavia ripeto non credo che siamo ridotti al punto zero, quanto da loro scritto è solo un grave rischio.
Le nuove tecnologie militari consentono di uccidere a distanza senza percepire fisicamente nulla di quanto produce un semplice delicato click sul computer, in luoghi molto distanti dalla carneficina, e questo rende l’indifferenza del distruttore umano paradossalmente facile, quasi ovvia, ‘naturale’.
Naturale pare l’assenza di altre emozioni umane salvo l’indifferenza, in un contesto asettico, sicuro, di grande distanza e tutta tranquillità per un pluriomicida.
Tuttavia, questa suggestione non è ancora irrimediabile: non credo affatto che l’odio sia estinto, né minimamente cambiato in sé, perché diventato antiquato ovvero inadatto in alcune situazioni iper tecnologiche e fisicamente distanziate di guerra / distruzione, oggi possibili.
Altre situazioni di guerra tradizionale sono compresenti, consolidano l’arcaica forza dei miti guerreschi ed un riesame delle cause iniziali dell’odio, che albergano nel fascino del controllo, della forza, della violenza soprattutto maschile e maschilista, è proprio quel che prosegue è l’identica reiterazione del comportamento maschile arcaico, per nulla cambiato, che Luigi Zoia chiama ‘centaurismo’.
Un femminicidio al giorno circa in Italia nell’indifferenza generale dimostrano che nulla è cambiato se non in peggio nel cuore del cavernicolo contemporaneo, e che la violenza alberga anche luoghi e tempi di pace.
Non penso che la morte del prossimo – morte del sentimento di prossimità, sia definitiva, tutt’altro. I sentimenti di prossimità sono vivi, o non sarebbe così lampante che le nostre società sopportano con gravi difficoltà le convivenze, le contiguità, i vicini di casa, gli avversari dentro e fuori i partiti.
Il senso di prossimità e di empatia non è irrimediabilmente perduto, direi piuttosto che si defila in contesti distopici e virtuali proprio perché non è cambiato; e non si applica a situazioni prive di appigli con il naturale modo di percepire l’essere umano, come essere biologico. L’empatia passa per il contatto fisico, gli sguardi ravvicinati in presenza, a dispetto delle mascherine e dei distanziamenti indispensabili nella pratica tecnica, necessità razionale di coesione sociale anti-pandemica.
Diverse arti possono rianimare ancora, efficacemente, la solidarietà fra umani, più di ogni altra cosa l’intelligenza può soccorrerci a rimeditare sull’inconsistenza, a lungo termine stupida, di ogni scelta di muover nuove guerre.
Certamente le relazioni umane sono sempre a rischio indipendentemente dalle guerre. Oggi lo sembrano maggiormente che in passato. Così come si sono allentati e caricati di nuove inquietanti complessità i distanziamenti ragionevoli, la rarefazione di contatti fisici imposti a tutti o quasi dalla prima pandemia globale fortemente contagiosa. HIV ed Ebola avevano avvertito, come epidemie intercontinentali con gradi e modi di contagiosità del tutto diversi, e avevano già prodotto nuove condizioni globali enormemente impegnative per le arti e scienze mediche. Gli avvertimenti della biosfera crescono.
Provare ad abbozzare risposte su questi temi vuol dire fare lo spelling di alcuni termini e rivisitare certi pensieri, questioni mal poste che forse è meglio dismettere, gettarle con decisione nel cesso in modo che si dirigano gradualmente in un salutare dimenticatoio, perché le guerre – e non gli esseri umani – si estinguano. Una lotta nonviolenta non sarà vinta che pian piano. Pian piano cerco di riflettere qui, ora, a partire dal suggerimento per cui la nostra ultima guerra più importante sarà contro i nostri prodotti tossici: obiettivo sano per la biosfera sarà – come avrebbe dovuto essere da tempo – distruggere ed annientare, togliere dalla faccia della terra, tutte le sostanze solide liquide o gassose capaci di ucciderci, capaci di attentare quotidianamente alla vita.
Un primo ordine logico di questioni da rivisitare la suggeriscono testi antichi e numerosi moderni nonché post-moderni (Sun zu, Clausevitz): che anche la guerra, persino la guerra, possa essere considerata un mestiere, un’arte?
Si deve certamente ammettere che essere guerrieri, militari, soldati semplici o generali, siano mestieri; che questi mestieri comprendano azioni costruttive: l’arte di prendere la mira, di centrare il bersaglio, di marciare, di lucidare gli stivali e le spade, ciascun gesto configurabile come possibili arti specifiche; ma non credo affatto che l’arte della guerra come disciplina complessa corrisponda ad un esprimere percezioni coscienti e ad innovare (si veda la definizione di arte dell’antropologo Franz Boas).
Non credo tuttavia che la guerra di per sé sia nel complesso un’arte, a meno che non la si definisca paradossale arte distruttiva ed anti-etica, ovvero una contraddizione in termini. In una prospettiva di logica fuzzy, se si accetta che la polarità fra arte e guerra sia utile, credo si comprenda che far la guerra e trovarsi in guerra sia, innanzitutto per chi fa mestieri marziali, il grado zero del mestiere, in cui si risulta ciechi agli scopi del mestiere stesso, antitetici ad ogni creatività e laboriosità costruttiva.
Nemmeno ha senso in realtà considerare la guerra un’impresa tecno-scientifica, benché essa includa in sé – nel suo vasto eterogeneo insieme di attività e competenze tecno scientifiche – molte invenzioni e innovazioni utili, non solo quelle atomiche di crescente distruttività.
Si pensi all’invenzione produzione stoccaggio potenziamento singolo e complessivo delle bombe e delle riserve atomiche. In parallelo colle centrali atomiche civili e ‘pacifiche’, di fatto oggi indispensabili fonti energetiche di Paesi detti civili. Ma le imprese di stoccaggio di armi atomiche che nutrono il pretesto per radere al suolo e giustificare la ricostruzione successiva, ammesso che una ricostruzione sia sempre possibile, sono mestieri ed arti? Sì. Ma non lo è la guerra.
A mio parere cessano di essere mestieri quelli intorno alle bombe, nel momento in cui vengano sganciate, perché l’unico mestiere degno di una società civile è il lavoro da fare per smantellarle tutte. La guerra in quanto tale come violenza in atto va bandita, anche per questo, dalla categoria delle arti e dai mestieri: per quanto di inumano e incontrollabile esiste ineludibilmente in ogni processo di distruzione.
Si noti che molte arti nel loro farsi risultano parzialmente incontrollabili – le interviste al pittore Francis Bacon sono convincenti esempi al riguardo – tuttavia mentre il suo esito è costruttivo o tutt’al più nullo, la guerra nel suo farsi è l’opposto, in parte controllabile, ma l’esito è invariabilmente distruttivo. Detto questo, il confronto fra i concetti allargati di arti secondo Boas e i concetti base che descrivono le cosiddette arti belliche, si può anche concludere. Si può ammettere a parte dell’insieme delle attività umane il guerreggiare, includendolo fra le arti paradossali o distruttive, e il discorso sulla guerra non si modifica di molto.
Le opere di Banskj – sarebbe più umano se Banskj stesso esiste e non è solo un’impresa commerciale – quelle che si autodistruggono in parte durante la procedura d’asta mirano ad essere vendute ad un prezzo più alto – non sono a mio parere affatto arti, non curano, costruiscono un messaggio veloce, e poco altro se mai procurano denaro. Sono certo messaggi, ma la loro forza maggiore non è nell’opera, è nelle speculazioni di mercato connotate di trucchi che necessitano di pochissima creatività, anche mercantile. L’opera artistica di Banskj in ogni caso, come costruzione, se mai è quella parte che residua e non vien distrutta, in quanto può comunicare purezza, dono espressivo di sé, e curare la psiche, perché ha costruito, pur poco, e merita d’esser guardato. Proporrei a Sotheby di devolvere il ricavato alle vittime di guerra o agli sterminati per fame e sete, e in caso qualche oligarca accettasse si tratterebbe nel caso di un’operazione nuova di arte etica. Quel che fino a prova contraria non è.
Tra i concetti e termini da smontare e le questioni da dismettere, voglio esplorare gli aggettivi che di volta in volta si affiancano al sostantivo guerra, dolorosi e sconci, a mio parere ben più del porno nella loro pseudo-decorosa ipocrisia.
Ci sono binomi che andrebbero abrogati, diversamente chiamati, indicati meglio con il loro sincero ed esatto nome, senza edulcoranti contraddittori, elusioni ipnogene, per distrarre l’opinione pubblica. ‘Guerra umanitaria’ è il binomio più impensabile che mi sia capitato di incontrare in sessant’anni, un ambiguo ‘concetto chiave’ del diritto internazionale, qualcosa di cui si parla sempre più spesso; pertanto richiede un approfondimento.
Roberto Toscano scrive di intervento “umanitario” mettendo l’aggettivo tra virgolette, fa bene; spiega, un po’ sottovoce in una nota a margine del suo libro, in un capitolo de ‘La violenza, le regole’, Einaudi 2006. Spiega il perché mette la parola umanitario tra virgolette: l’aggettivo è attribuito ad iniziative non solo militari. In altra parte del libro si sofferma sulla crisi acclarata del diritto internazionale, apertasi con il nuovo millennio, alla luce di vere e proprie tragedie politiche ed umane (Ruanda, 1994, Twin Towers 2001); è vero, tutti gli addetti del settore sanno bene, sono entrate in crisi, afferma,
… alcune regole ritenute prima fondamentali delle relazioni internazionali, in primo luogo la regola della sovranità degli stati, democratici e non.
Rileggo Toscano avendo presente quanto ricorre con forza in Gino Strada, il monito alla sua nuova compagna e curatrice dell’ultimo libro, Una persona alla volta, del 2022, Simonetta Gola ( … Gino mi diceva sempre cerca i fondamentali… ).
Il tempo per abolire le guerre non arriva mai, gli anni passano e tutto si risolve in uno stallo. Mi chiedo se questo stallo abbia spezzato il cuore di Gino in Normandia mentre proseguo il confronto di pensieri altrui, perché Gino scrive ripetutamente dei diritti, della assoluta necessità del loro rispetto. Toscano scrive:
“ … Credo che parlare di “intervento umanitario” possa risultare sostanzialmente ambiguo, nel senso che la terminologia tende ad offuscare il problema fondamentale, ovvero che si tratta di interventi – cioè di azioni imposte dalla comunità internazionale contro soggetti statuali riluttanti – Non tesi a perseguire fini umanitari (come sarebbe un’operazione di salvataggio di popolazioni ad esempio minacciate da catastrofi naturali, ancorché condotta senza autorizzazione di un governo locale), bensì realizzati per porre fine a gravi violazioni di diritti umani. Cioè profondamente politiche …“
Non tesi a perseguire fini umanitari.
Volti invece a far cessare il disumano, cosa non scontata e passibile di aggiungere morti, distruzione e disumano cammin facendo. Tutt’altro dunque che azioni umanitarie, necessità difensive ed in parte conseguenze di azioni distruttive, messe in campo a porre limiti contro il disumano. Se così è ben detto, e lo è, allora il binomio ‘guerra umanitaria’, almeno quello, va abolito subito e definitivamente.
Giusto per mettersi d’accordo coi pensieri, bisogna chiamar le cose col loro nome e sperare che il diritto internazionale ed umanitario possano uscire dalla loro crisi ed evolversi. Qualcosa di simile dichiarò fino alla fine della propria vita Karl Popper rispondendo in una intervista, sulla triste necessità di ‘Fare guerre per la pace’. Aggiungendo ‘ E ovviamente nel modo meno crudele possibile ...
Credo che oggi ci si debba arrendere alla necessità di difendere l’Ucraina dalla Russia, e che valga la pena di sospendere il giudizio non sulla iniquità dell’invio di armi. La minor iniquità possibile, deve essere l’obiettivo morale della guerra come di tutte le guerre in corso. E la minor iniquità dovrebbe imporre una massima sincerità e trasparenza su quanto accade e sui motivi delle scelte politiche compiute giorno per giorno. E qualcos’altro, di imprescindibile: nel momento in cui si sia costretti all’iniquità cioè ala violenza della guerra dalle circostanze, nel momento in cui un dialogo sia rigettato tra le parti belligeranti, cambiare linguaggio dovrebbe essere un primo obbligo di tutti gli Stati e le Istituzioni sovranazionali implicate;
In secondo luogo, non meno importante, ogni monologo dovrebbe prevedere delle proposte di scambi per cessare il fuoco, secondo la regola esattamente contraria a quella antica, ovvero: Si vis bellum, para pacem.
Non va in ogni caso più concesso alcuno spazio mentale e linguistico ad una contraddizione intrinseca, che parli di guerre umanitarie: non ne esistono. Non va dato spazio ad un linguaggio ipocrita, a maggior ragione se la guerra, che andrebbe abolita, florida prosegue in troppe parti del mondo e lascia Emergency, medici senza frontiere, Oxfam, Amnesty International, tutti i loro sostenitori angosciati e attoniti. Me tra loro.
Almeno mettiamoci a chiamar le cose con il loro nome sena indurre oscene, e stupide distorsioni cognitive. Un’affermazione inquietante che dovremmo ricordare è quella di Proudhon, sviluppata poi con intelligente spirito critico da Schmidt. Se ‘chi dice umanità vuol ingannarti, è perché si concede al linguaggio di indulgere a distorsioni che non stanno in nessuna coscienza morale. Nel momento in cui si guerreggia è per logica e non per moralismo importante fare a meno del comodo mito marcescente della guerra santa, giusta, che non è mai esistita. Non va difesa una concezione per la quale anche una guerra difensiva debba esser definita giusta. Non lo è, semai la cosa meno ingiusta possibile, da valutare giorno per giorno per il suo grado bilaterale di iniquità.
Parafrasando Croce, una guerra difensiva è tutt’al più utile, economica, ma apre alla contraddizione o se si preferisce al dilemma, perché in quanto distruttiva seppur utile, resta ingiusta, anti-etica.
Io qui propongo l’ovvietà di rifiutare, di bandire per sempre il binomio ‘intervento umanitario’, quando riferito ad azioni politico-militari: va evitato in quanto la maggior parte delle volte in cui lo si usa è una lampante falsità, antitetico al senso di quanto si intende comunemente con ‘azioni umanitarie’.
La salvezza di vite umane potrà eventualmente misurarsi a conclusione dell’intervento, ovvero quando si conteranno i morti e i profughi salvati a prezzo di loro inique sofferenze. Va evitato il linguaggio ipocrita in casi di guerra per questioni di logica, prima che di etica.
Le parole implicano una logica e/o una risonanza cognitiva e psicologia. Questo è il criterio: ricordare che è grazie al linguaggio stesso se homo sapiens ha sviluppato la sua capacità di violenza proattiva collettiva e inventato, di generazione in generazione, guerre da semplici a sempre più complesse ( cfr. il libro “Il paradosso della bontà”, 2019): il significato che spesso si rimuove, di certi termini e binomi, rende il linguaggio un mezzo per perdere l’occasione e la possibilità di capire.
Questo esige una maggiore attenzione da parte dei regimi democratici. La chiarificazione sui fatti è una delle poche qualità che le democrazie possono meglio sviluppare rispetto alle autarchie, oligarchie, ai regimi autoritari.
In attesa di un dialogo in trasparenza, le parti belligeranti avrebbero il dovere per quanto appaia ingenuo, di chiedere il rispetto della dignità e della libertà delle minoranze dissenzienti a maggior ragione e con molta forza in tempi di guerra. Che ne è di Navalni?
Ricapitolando.
Abolire i binomi ‘guerra giusta’, ‘guerra umanitaria’, e simili assurdità dal gergo tecnico del diritto internazionale, come dalle consolidate abitudini diplomatiche, giornalistiche, dei vari intellettuali di turno, atte a confondere e disinformare, evita di storpiare in cieca imbecillità o peggio in menzogne variamente miscelate, l’uso delle parole.
Si dia altro nome ad un intervento militare come quello degli occidentali in Ucraina, e ad ogni altro intervento simile. Il nome dato da Putin all’inizio della guerra, operazione militare speciale, è palesemente infido ma accorto e competente – un’invasione in altro stato e una guerra non sono per niente speciali di per sé, pertanto v’è qualcosa di implicito o di falso che si lascia in sospeso, e lo si fa in risposta a quanto fecero senza attendere una risoluzione dell’ONU gli USA in Kossovo nel 1999; va dato atto che quanto meno non si usa l’ipocrisia in eccesso, non si usa l’idea di ‘guerra giusta’ o di ‘guerra umanitaria’. E’ evidente che le dichiarazioni on line dei leader politici post sovietici neo-zaristi sono volte a due ordini di interlocuzioni. Si comunica al proprio interno e al resto del mondo, contemporaneamente, in un duplice monologo paradossale.
Per questa ragione i leader Ucraini farebbero bene ad attrezzarsi e poi a chiedere quotidianamente, un dialogo aperto ai fini del cessate il fuoco con la controparte, a preparare domande e risposte per una ridefinizione di compromesso di atti necessari propri per ridisegnare i confini e gli impegni futuri per una pace perpetua, ben lontana da intravedersi, secoli dopo il sogno di Immanuel Kant.
A maggior ragione se si ritiene che ‘nemici’ dell’Europa o dell’Ucraina siano i Russi, dare atto al nemico di qualcosa è il primo passo giusto, sincero, per non chiudere un’ipotetica possibilità di compromesso, ed una lealtà che si ritiene anche il nemico possa pur paradossalmente apprezzare, e forse persino adottare. Che senso avrebbe mai, senza questo, una richiesta di tregua ed un’attualmente inesistente apertura verso trattative di pace, temporanea o perpetua che si voglia?
Si parli, dicevo, di azioni di guerra, dunque sempre inique, bilateralmente, sempre interventi militari; si dica quel che sono, interventi ad esempio con armi convenzionali/tradizionali o con armi forse speciali, nuove, mai conosciute prima; si lasci perdere la distinzione tra specialità varie, e si considerino sinonimi i termini ‘uso della forza militare’ e ‘uso della violenza’: di questo, di azioni di guerra, e di crimini si tratta.
Nei casi in cui si ritengano necessarie risposte ad azioni di guerra con altre azioni di guerra, difensive dopo una aggressione, le si chiami ‘guerre o azioni violente, operazioni militari, etc.. ‘reattive a crimini contro l’umanità’, non umanitarie. Il meno crudeli possibili non vorrà mai dire prive di crudeltà. Si impone innanzitutto alle società aperte dire la verità, evitare ogni anche minima ipocrisia, se si ritiene ‘cristianamente’ giusto un dialogo col nemico. E’ una banale, ma non flessibile, proposta terminologica.
Tutti i crimini denunciabili andrebbero poi ben indicati e descritti in fatti specifici e comprovati, senza necessariamente aspettare l’istituzione svolgimento di un processo e sentenze presso il tribunale dell’Aja; è scontato che questo timing sia impossibile, ma si debba procedere nello stesso momento in cui si compiono azioni violente reattive.
Un intervento armato di tipo reattivo, sarà infatti comunque caratterizzato dal ricorso alla violenza e al monologo, in vista del fine primo, non ultimo, 1) di ottenere un anticipato se non immediato cessate il fuoco; 2) di difendere i civili e tutte le vittime, da entrambe le parti, e 3) di difendere gli eserciti della nazione e i civili, il popolo che abbia subito il crimine.
Nel caso poi che altri fini – commerciali e non – del tutto differenti sussistano sul terreno dello scontro, i secondi fini
a) economico-politici regionali
b) economici globali
c) geo-politici globali,
d) altri / non classificabili etc., saranno tutti costitutivi di eventuali conflitti di interesse, indebolimenti ed attenuanti oppure aggravanti degli interventi reattivi, a seconda, dei motivi primi, che andrebbero esaminati.
Così si potrebbero individuare, di fronte all’opinione pubblica mondiale, ma innanzitutto ai Paesi che dichiarano di credere nei diritti umani e nella democrazia, i motivi di eventuali iniquità e di azioni anti-etiche, o moralmente discutibili , sottese ad ogni futuro accordo di Pace.
Così ingenuamente, ma non in modo molto diverso, si potrebbe riuscire a parlar chiaro, delle ragioni balorde delle guerre, e spetterebbe innanzi tutto alle società aperte, non a quelle chiuse, farlo con chiarezza.
Per quanto si abbia tutti sotto gli occhi e dentro le orecchie l’orrore di notizie date ogni minuto, via web via radio e tv, via global media, su questa guerra, se ascoltiamo quella che è purtroppo la nostra terminologia corrente e la cultura mediatica attuale, un disagio non nuovo mi pare continui ad esser ‘leggibile’ tra le righe, o meglio tra le parole e le fin troppe immagini – discorso leggibile per quanto nascosto si tenti di tenerlo.
A un osservatore e lettore attento, un ragionamento condotto alla superficie dei fatti pieno di default non dimostrati e con termini equivoci è più che malcelato, è una fake; le notizie tolgono a volte informazione, accorgersene è appunto causa di immediato, reiterato, disagio. E di conseguenza, proprio in quanto malcelato – poco o per nulla approfondito, un fatto mal riportato dovrebbe essere rigettato da un’opinione pubblica o una Global Civic Society (GCS) evoluta: le distorsioni ipocrite dei termini devono smettere di pascolare insieme fuori e dentro le campagne elettorali prive di proposte politiche, soprattutto nei regimi democratici, cioè nei Paesi dove le opinioni possono essere espresse liberamente, e quindi anche qualche opinione critica, intelligente, contraria alla guerra ed agli sfruttamenti, potrebbe far cambiare i voti ed i comportamenti dei cittadini in termini di disobbedienza nonviolenta, a favore di giustizia e pace.
Questa necessità di perenne pascolo di distorsioni e scemenze rende confuse le ragioni e le distorsioni cognitive alla base della scelta stessa, di volta in volta, in un certo tempo e luogo, di andar a fare la guerra: le ragioni sono pure accennate, ma spesso poco analizzate e poco chiare.
Le ragioni distorte dai linguaggi illogici divenute scontate, abituali, ovvie, creano il rumore di fondo che impedisce di capire perché si dicano le cose, e questo è sempre lo scopo, nelle guerre mediatiche.
Si dicono le cose false per non dire quelle vere.
Le distorsioni generali – tra le quali l’idea ricorrente di una guerra lampo (tanto sbagliata da meritar il ricorso col volgare sarcasmo del fuori luogo all’idea di guerra-cerniera lampo) – possono proseguire il loro iter e destino indisturbate a favore di una indebolita Democracy and Global Civic Society, di una debole opinione pubblica, in questo o quell’altro stato, a favore di numerosi interessi particolari e spesso guerrafondai.
Rare le guerre lampo. Altro binomio molto spesso del tutto falso.
Guerra lampo?! Si disse molte volte in passato, è spesso la prima delle menzogne o delle valutazioni errate, forse anche degli auto-inganni di chi aggredisca un altro Paese, ovvero un luogo dotato bene o male di una propria sovranità. Nel caso dell’Ucraina vale la pena ricordare che questo Paese è nato come stato indipendente nel 1991, subito dopo il crollo del muro di Berlino, e che ha patito sostanzialmente una guerra civile non lampo dal 2014. Ma anche i secoli precedenti illuminano sulla turbolenza i conflitti interni e la sofferenza di popoli e gruppi che hanno attraversato la storia nella terra detta ‘confine’ (si veda l’etimologia del nome Ucraina).
In generale, oggi auspicare una guerra lampo per edulcorare o giustificare é ancor più ipocrita che in passato. Anche una guerra di poche ore oggi potrebbe distruggere il pianeta, questo dà una sufficiente idea della hubris di affidarsi ad una guerra lampo, mantenendo i criteri del passato più o meno remoto.
La guerra in corso per certi versi tecnici e mediatici è del tutto inedita, per altri ricorda i pochi metri della prima guerra in Italia con le sue devastazioni corpo a corpo e suggerisce come vadano urgentemente riportate al loro senso perverso, distruttivo e trasformativo, le parole stesse sulla guerra acriticamente usate, o peggio con intento palesemente distorcente – menzognero, cosa del resto sempre avventa, con minor potenza mediatica di oggi, in ogni passato bellico. Basti pensare al fatto che non è la guerra russo-ucraina a devastare un presunto ordine mondiale: questo ordine era già stato compromesso dalla guerra di aggressione mossa dagli USA contro l’Irak violando ancora una volta le norme del diritto internazionale, nel 2004, e poi nel 2008-2009 con la crisi finanziaria globale detta di Lehman Brothers.
Val la pena sempre ricordare Goebbels, abile capo della propaganda nazista, che dichiarò esplicitamente in Germania il suo programma mediatico che fu di successo nella democrazia tedesca in crisi: dite una menzogna non una, mille, dieci centomila volte, diventerà la verità.
COLLOCAZIONE: tratto da un libro inedito, prossimo a stampa in n. limitato di copie, intitolato “Arti contro le guerre”
Franco