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L’Arte Cos’è? Le Arti Cosa e Quante Sono?

Parte 3

Fragili proteste mute. Una riflessione sull’arte e non solo.

“L’arte è definibile come l’uso di materiali per esprimere percezioni coscienti’

Franz Boas, in “L’arte dei primitivi”, Bollati Boringhieri, edizione italiana 1982

“La cultura può essere definita come la totalità delle reazioni ed attività intellettuali e fisiche che caratterizzano il comportamento di un gruppo sociale … in relazione al proprio ambiente naturale, ad altri gruppi, ai membri del gruppo stesso, nonché di ogni individuo con sé stesso … Essa non si riduce tuttavia alla semplice enumerazione di questi vari aspetti della vita; essa è qualcosa di più, perché i suoi elementi non sono indipendenti ma possiedono una struttura.

Le attività elencate non costituiscono affatto una prerogativa dell’uomo, dal momento che la vita degli animali è anch’essa regolata dalle loro relazioni … “

Franz Boas (antropologo, 1858-1942), citato in ‘Il concetto di cultura’, Einaudi 1970

Primo principale problema, è l’ambiente, la sfida climatica: nemmeno la guerra lo batte per grandezza, anzi globagravitanza = estensione planetaria + gravità + urgenza + importanza.

-segue da parte 2

Fornire riflessioni e proposte in un ambito vasto come l’ambiente globale meriterebbe un libro più grande, forse a parte, urge che ci si provi a scrivere molti libri del genere, ciascuno proceda col proprio fare diversamente da prima.

Nel frattempo, serve pensar da capo nel punto di crisi più controverso. Mi sforzo di riflettere in generale sulla guerre che ritengo una questione sottesa all’ambiente, dove l’ambiente è il tema più vasto di tutti, la dimensione cognitiva che va preservata, appunto, proprio dalla distruzione. (*)

La violenza, che muove sfruttamento e danno ambientale a sua volta, è lo stesso carburante emotivo ed irriflessivo degli eccessi dei consumi che si distilla nella scelta di muovere guerra. La guerra      che poi produce danni ambientali aggiunti peculiari, è perpetrata in troppi luoghi ed oltre i limiti di uno sviluppo umano da troppo tempo cieco a sé stesso contro natura.

La guerra è sempre più, con le società umane, la quintessenza delle dimensioni contro natura, si potrebbe dire ‘un settore speciale’ della questione ambientale e del rischio di estinzione umana a causa dell’uomo. Proprio in quanto tentativo non riuscito di fare arte, il risultato nel XX e XI secolo di insuccessi bellici crescenti è ciò che mosse in partenza, ab initio – dall’aggressione di una specie contro se stessa, una quasi eccezione di natura, per la portata di evoluzione culturale e tecnologica a cui gli umani sono giunti da tempo: un’evoluzione e una grave involuzione di eccessi, parallela ai progressi, involuzione di cui ci si avvede tardi. Ancor più tardi e poco si son ascoltate le voci critiche che hanno avvisato negli ultimi cento – centovent’anni.

Vale anche per le guerre l’affermazione di Albert Schweitzer, che rinvia alla dimensione tradita oggi dell’arte medica (la prevenzione). E’ un’ affermazione che esposi su un biglietto, in una mostra svoltasi alla chiesa di S.Tiburzio in Parma, nell’aprile 1986: La vera lebbra del mondo è non saperla curare in tempo.

Il paradosso della guerra, di cui ci si avvede di solito a devastazione inoltrata, è che non si mette in conto di quanto intrinsecamente essa sia fallimento irrimediabile per definizione. E’ purtroppo anche, come tutte le arti, un prodotto culturale: un prodotto e non un regresso ma bensì il regresso, perennemente presente alla storia dell’umanità. Prodotto paradossale, isolato dalle  dimensioni costruttive, da tutte le alte arti e dalle invenzioni che l’uomo ha coltivato, evolvendosi grazie ad esse … e al contempo perennemente involvendo le proprie società e culture, verso maggiori distruttività potenziali e reali.   

Della guerra va evitata una vecchia descrizione ipocrita, a maggior ragione se si ritiene se le società attuali siano meno violente di quelle passate, perché non si combatte o risolve alcun problema con una sua diagnosi errata. La distruttività e la minaccia nucleare non è un mito ma una possibilità reale, che in passato non risultava nemmeno immaginabile, e Hiroshima, Nagasaki, Bikini non vanno dimenticate.

Non esiste ovviamente alcuna formula matematica o una prova scientifica inconfutabile di quel che    affermo sulla guerra, si tratta di prove storiche. Se non è scontato sia convincente pensare alla guerra come fallimento ab initio, è perché la matematica e la scienza non descrive tutto l’uomo, e sta nel linguaggio come strumento stesso l’ambiguità inevitabile. La storia non è come l’antropologia disciplina eludibile. La Poesia non è ancora estinta.

Analogamente,    ambigua e non certa è l’origine della capacità umana di guerreggiare; e nel futuro, sempre aperto,    sta necessariamente anche la possibilità e capacità di porre fine al guerreggiare. Serve lottare in molti ancora molto perché questo futuro divenga realtà presente e non si parli più sterilmente della fine delle guerre come di una utopia – concetto sterile per definizione.

Le parole in difesa della guerra sono moltissime, vanno smontate con linguaggi del cambiamento che non saranno subito accettati. Lo sono stati mai, finora. Il cambiamento, se sarà, sarà graduale.

I linguaggi parlano alla ragione ma anche ai sentimenti, ovvero anche alle peggiori passioni ed emozioni umane, e la psichiatria è ancora lontana dal far piena luce sul tema dell’aggressività e dei sadomasochismi perpetrati secoli, così come a livello iter-personale ovunque quotidianamente il fine disequilibrio mentale si auto mantiene; ma insieme con la linguistica e le giurisprudenze, le neuroscienze, le psicologie cognitive, la psichiatria sociale costituisce un buon gruppo di metodi capaci di lotta contro le violenze.

Ogni disciplina, scientifica o meno, come ogni individuo, piaccia o no, ha il proprio linguaggio, il proprio stile e tono di pensiero, la propria filosofia di vita; senza per forza accogliere il metodo filosofico tra i propri strumenti cognitivi, più spesso acriticamente oggi si procede blaterando su gli scopi delle specifiche dominanze che spiegano le ragioni politiche di questa guerra come ovvie e di tutte le guerre come inevitabili, ed affidandosi alla scienza e alla tecnica si può argomentare con dovizia per ottenere tutte le risposte sbagliate. Il sogno della ragione è quotidiano, genera quotidianamente mostri: il sogno, non il sonno, perché un ragionamento che parte da premesse sbagliate può filar dritto, e l’organizzazione di atti distruttivi come l’olocausto degli ebrei si è retto    su una ragion pratica estremamente efficace ed efficiente.

La scienza è esposta ai sofismi e alle strumentalizzazioni, come ogni aspetto del pensiero e dell’azione umana. La scienza ne offre di risposte, lo sa fare anche perché gli scienziati a loro volta hanno una filosofia di vita ed un’etica, perché come tutti usano la loro arte di far domande, il loro metodo filosofico, consapevolmente o meno, insieme a quello scientifico, e praticano l’etica della sincerità, per comprendere e comunicare passato presente e futuro.

La scienza ha, si sa, una propria filosofia ed una propria etica senza le quali non sarebbe possibile, né varrebbe la pena costruire conoscenza.

La conoscenza può tentar di avvisare la tecnica e la tecnologia di fermarsi, di non andare oltre. E certo anche gli scienziati come tutti gli esseri coscienti possono mentire, ma posto che la maggior parte degli scienziati abbia ancora un’etica salda, questi insisteranno per le cessazioni di attività deleterie, distruttive, non per la loro prosecuzione e il loro miglioramento tecnico, che potrebbe equivalere d un potenziamento di distruttività.

Queste considerazioni su scienze e tecnologie sono parte fondamentale della questione della libertà umana: giacché libertà è innanzitutto responsabilità, essa oggi è anche capacità di darsi limiti, di sceglierli liberamente e rispettarli, in ogni ambito di azione. Alcune tecnologie e invenzioni potrebbero essere dismesse così come son state realizzate, se evidenze scientifiche di danni eccessivi venissero ascoltate. La capacità di darsi limiti da parte di molte arti, a ragione veduta e corroborata dalle scienze, è giusta: l’etica esige di non porre limiti al libero pensiero raziocinante, ma di porne moti, di ponderati, a molte azioni.

I criteri espressi in ambito di arte medica dalla nota metodologia detta EBM, Evidence Based Medicine (o più estesamente, detta Evidence – preference – experience based health practice, applicata a tutte le professioni sanitarie), con piccole variazioni legate al contesto, potrebbero in realtà essere applicati in riferimento a principi di precauzione anche in altri ambiti professionali, forse in tutti.

Perché sono, siamo forse un po’ tutti, poco attrezzati per estendere i criteri che servono, e per rispondere a certe domande in modo convincente? Le diversità dei percorsi personali e professionali sono troppe, hanno edificato diverse torri di Babele e certe pusillanimità fanno il resto: ci si contrappone e fraintende volentieri.
Un grosso guaio è, senza dubbio, ancora, il gap culturale tra arti e scienze.

Il gap tra scientifico ed umanistico, le cosiddette due culture, ancora largamente incolmato ed incolmabile. Un solco o piuttosto un gran canyon separa le due terre straniere – le due culture, quella umanistica e quella scientifica – come due liquidi immiscibili, olio e acqua, e se vale la metafora del canyon non si vedono ponti, ne son stati costruiti pochi in molti decenni.

Finché non cambiamo seriamente il nostro modo di pensare, così che si trovino modi di battere sentieri o tecnologie nuove per costruire i solidi ponti e i raccordi autostradali e tentare una unificazione delle due categorie di discipline, che devono alla mancanza di ponti stessa la loro inavvertita crisi e per certi versi la loro stessa sterilità, non preserveremo comprensione umana e la tecnica renderà marginali ancelle persino le stesse scienze, inessenziali al progresso tecnologico in effetti. I complessi sistemi artificiali funzionino, e a nessuno interesserà più sapere come e perché, funzionino, così che il cittadino globale medio diventerà una vittima inebetita del consumo e dei giochi di potere attrezzati ad istupidirlo violandone uno ad uno tutti i diritti. Ribellarsi a questo è lo sforzo della nostra umanità residua soffocata, dal caldo dalla sete e dall’intricato complicarsi di soluzioni problematiche, che non ci rendono migliori in prospettiva, se lasciamo fare ai violenti.   

Resta il fatto che un pensiero autentico ovvero nuovo – cosa rara – non procederà mai grazie a strade pluri battute, ma attraverso una esplorazione fuori pista, fuori ed oltre schemi ed etichette: generare nuove ipotesi e idee, un passo alla volta, da qualsiasi parte provenga il suggerimento creativo per la direzione da prendere, il generarle, le nuove ipotesi ed idee, sarà la sola cosa che fertilizzerà insieme scienze ed umanesimo: un pensiero nuovo sarebbe forse il ponte stesso oltre-frontiera, prima ancora di ragionare, intuire che se si vuole ci si arriva, di là, da tutt’altra parte, persino nel mondo dell’arte cosiddetta del possibile che secondo qualcuno è la politica. Il ponte che collega territori incomunicabili, in ogni caso, dev’essere un anche piccolo pensiero nuovo, ed è in effetti questa la rarità: come suggerisce nella prima pagina de ‘Il mancino zoppo’, pensare autenticamente cioè pervenire ad innovazioni del pensiero è raro.

Certi collegamenti nei ragionamenti sembrano introvabili. Alla loro ricerca, le parole vanno smontate, reinventate e ricomposte, e per quanto questo sia utile le parole non serviranno a nulla né basteranno mai da sole. Rispettare le parole date e agire in conseguenza ad aver pensato bene, è determinante a risolvere. Se sono sufficientemente informato da sospettare, con convinzione nuova, senza aderire a sette religiose o a congreghe alternative, anti razionalistiche e complottiste, che le arti possano tracciare un’efficace via di benessere e di cura di tanti dolori e disturbi psicologici, ad un certo punto qualcosa in proposito risulterà provabile, misurabile poi perfino provato, e se è possibile che sia così, allora c’è speranza.

Si dipaneranno le contraddizioni e le democrazie diverranno un poco più i regimi delle sincerità, non quello che sembrano e sono troppo spesso, regimi di opinioni superficiali erronee e menzognere, free-wired-market-oriented; e di troppe ipocrisie, troppo simili a quelli autoritari.

Mi accingo daccapo a rivisitare la parola Arte per re-introdurre il collegamento arte-pace/guerra-non arte.   

L’arte è una fondamentale attività umana, ed è tale quando costruisce, fa evolvere un essere umano, un gruppo, una comunità ed eccezionalmente il mondo intero: deriva dalla vittoria della spinta creativa su quella distruttiva.

La vita stessa è già, di per sé, un ciclo continuo, improbabile in senso termodinamico, di costruire e distruggere. La morte è la conclusione del ciclo vitale e della vita è parte sicura, così come la guerra è la conclusione/cessazione prematura delle arti tutte.

Molte attività umane, dalla pittura alla medicina-chirurgia, possono con buon fondamento essere considerate arti. Userò qui sempre la parola ‘arte’ avendo in mente come è stata definita, ai primi del novecento, dall’antropologo Franz Boas: l’uso di materiali per esprimere percezioni coscienti.

Nei suoi studi antropologici Franz Boas distingue l’arte dall’artigianato facilmente, in base a 2 criteri semplici, che unificano con intelligenza i mestieri e le professioni umane:

1) eccellenza di realizzazioni

e/o

2) capacità di innovare, capacità di invenzione di nuove forme, ovvero di nuove soluzioni creative, non precedentemente note e non praticate prima in quella data cultura.

La definizione e i due criteri detti possono valere oggi per tutte le arti e per la cultura globale in cui ci troviamo.

In quel per esprimere sta una questione molto ampia, sta tutto l’indefinito e indefinibile – o se si preferisce, tutto il mistero e l’ambiguo, tutti i simboli e i rinvii alla psiche, all’anima – che anche quando ben definita, l’arte continua a trattenere attraverso secoli e culture.

Traduco ‘esprimere’ secondo l’etimologia del termine, il più semplicemente possibile, come ‘far uscir fuori’, tenuto conto che la parola deriva dal latino [ ex- primere, premere fuori, composto da ex, fuori e primére, premere ] e che quindi si possa dire con un twet, se costretti, che l’arte è un tentativo maieutico di agguantare materialmente – tramite materiali – proprio lo spirito, o quanto meno quel che viviamo come immateriale, il nostro modo di percepire il mondo e noi stessi.

Ciascuno esprime con l’arte in effetti le proprie, personali, percezioni coscienti. Questo vale per pittura scultura o musica, e in buona parte anche nel caso che uno svolga ad esempio, come medico, un’attività che non è solo artistica in senso stretto, è piuttosto semplicemente artigianale. E che, per il fatto di riguardare la cura portata a corpo e menti umane, si può accettar di definire un’arte etica.

Con questo non intendo offendere ma anzi valorizzare, nel suo rispetto, la dimensione costruttiva e creativa che è anche della scienza. Scienza è tuttavia innanzitutto definita dal proprio metodo, dal    proprio essere interminabile serie di procedure di osservazione paziente, reiterata, e raziocinio, come via di conoscenza, piuttosto che nel modo in cui meglio si definiscono arti e, in senso lato, moltissimi mestieri.

E’ necessaria unità ma anche distinzione tra arti, artigianato, tecniche e tecnologie da un lato, e scienze e discipline storico sociali dall’altro. L’unità costruisce i ponti tra discipline e abbatte i cancelli del sapere discussi da Karl Popper, prevede un’arte per ogni scienza e una scienza per ogni arte, coll’ovvia ammissione che le varie tecniche e tecnologie implicate nelle arti non si preoccupano di conoscere, quanto invece di fare, produrre, costruire, e costruire un nuovo di cui per definizione non si possono conoscere esattamente gli effetti, prima di un lasso di tempo e di esperienza sempre aperto e incerto.

La definizione di Franz Boas si applica con tolleranza a volte alle arti visive alla poesia ed alla musica, ma oggi la si dà per vecchia superata, forse perché si tende, a mio avviso per schematismo sterile, a non ammettere o a dimenticare che c’è una dimensione estetica e creativa in tutti i mestieri e in tutte le professioni, anche in quelle lontanissime dalle arti dette pure. La dimensione estetica come quella etica sono un riverbero di unità dello spirito o quantomeno delle culture da riscoprire.

Esistono degli ambiti in cui le percezioni coscienti sono palesemente umanitarie ed etiche, e non solo estetiche, con buona pace – o forse con il suggerimento indiretto – di Benedetto Croce  – che sistematizzò le dimensioni dello spirito umano in 4 categorie in linea teorica immiscibili, ma unite e distinte (estetica, logica, economia ed etica); e che contribuì fortemente – oltre a molto di alto e meritorio – al mantenimento di una distanza incolmabile tra cultura umanistica e scientifica in Italia se non in Europa. Si potrebbe proseguire Croce assumendo che, per ragioni di utilitarismo, cioè economiche, meramente pratiche e non etiche, sia urgente trovare compromessi per armonizzare l’economia convenzionalmente e poco filosoficamente intesa – cioè la matematica applicata al denaro ed alle speculazioni super tecno finanziarie – mentre l’economia filosoficamente intesa include la politica e la giurisprudenza – che sono considerate da Croce le reali e profonde dimensioni economiche dello Spirito.

Un compromesso per ragioni analoghe potrebbe rendere tutti i mestieri più facilmente assimilabili a condizioni dove la creatività e le innovazioni sono la dimensione artistica imprescindibile e urgente delle professioni. Se non le reinventeremo tutte, saremo morti, per ragioni belliche e/o climatiche.

Quando dico qui Arte, intendo = molte arti, dunque.

Le percezioni coscienti intese da Franz Boas come percezioni sensoriali sono elemento comune semplice per le arti pure, ma anche per altre discipline, ed anche per quelle che si fondano su percezioni-emozioni di difficile inquadramento, che aprono all’etica. Si può azzardare un ampliamento del percepire anche ad alcune astrazioni, cosicché risulti accettabile e concedibile che esistano arti e mestieri ad alto contenuto di solidarietà, ad alto rischio di dilemma etico, come … la medicina, l’architettura, la giurisprudenza, l’attività parlamentare, e molte altre.

E’ logico includere tra le arti la diplomazie e l’arte dell’armistizio, l’arte di far la pace. Non è coerente includere la guerra fra le arti, perché tutte quelle considerate in questo modo costruiscono, nella migliore ipotesi, anche nella peggiore, non distruggono.

Le percezioni coscienti non riguardano solo quel che stimola la creatività di un individuo, ma le creatività armoniche di più individui insieme. Grandi affreschi sculture installazioni e performance contemporanei, così come un concerto jazz e l’interpretazione orchestrale di una sinfonia raccolgono il contributo di molte persone insieme. Ed anche nel caso di lavori in equipe chirurgiche, o all’interno di reti ospedaliere, si dà la possibilità o necessità di innovare oggi radicalmente in gruppo. Anche nel caso si operi come artista visivo o professionista (del cinema, del fumetto o della grafica) si partecipa molto spesso a lavori orchestrali e collettivi, oggi diffusi per mirabolanti vie tecnologiche.

Quanto unifichi e riconduca agli esseri umani la parola esprimere, quanto dica dell’animo/a di donne e uomini, mi pare difficile saperlo: il concetto è oceanico, non riesco a immaginare un testo puntuale in grado di contenere e comprenderne i molti aspetti. Anche per questo credo che l’arte si possa comprendere solo in parte, definire in modo appena sufficiente per avviare un dialogo, mentre è solo un preliminare il monologo interiore.

Ma la vastità è bene, dà alla vita una dimensione di sfida, di necessità di cambiar orizzonte, ampliarlo, liberare tempo di presunto ozio, per dedicare alle arti scelte da ciascuno quel che meritano, un sacco di tempo di studio di azioni esercizi e revisioni critiche del proprio operato, e di nutrimento creativo.

Il monologo è un inevitabile obbligato corollario di solitudine per approfondimento. E’ per l’appunto il pre-dialogo, il chiarirsi fra sé e sé; e l’intesa, tuttavia, restano una base comune a partire da pensieri, non solo ‘di info’ condivise, che consente la realizzazione di opere d’arte collettive di pregio.

Questo delle opere collettive è accadimento oggi forse più frequente che nei decenni passati in ambito di arti visive, anche perché l’individuo sta scoprendo finalmente la sua insufficienza; forse perché si va attenuando l’inutile aurea magica, di misticismo e mistificazione, che per troppo tempo ha circondato gli artisti e distanziato ogni pubblico dall’arte come essenziale dimensione umana insopprimibile; l’idea relativa alla grandezza del singolo individuo creativo e all’artista come essere insuperabile o superuomo è stupida e controproducente sia per i rapporti personali che per la comprensione del fare e della grandezza delle opere d’arte, e sarebbe veramente ora di abbandonarla per sempre.

Le realizzazioni collettive che di fatto nelle società umane sono sempre state andrebbero ulteriormente potenziate e rivalutate, anche in arte visiva, a dispetto del fatto che le percezioni sono personali.

La realizzazione di grandi sculture, ad esempio, è spesso di necessità il risultato della collaborazione fra creativi, individui cioè capaci di intuizioni e innovazioni formali, con uno o molti artigiani e tecnici. I 2 elementi, innovazione formale ed eccellenza tecnica, definivano secondo Boas anche per i primitivi l’arte, distinguendola dal semplice artigianato; non c’erano affatto altri motivi per separare arte da artigianato, oltre a questi. Secondo me è altrettanto vero oggi. Non ci sono altri motivi, arte e artigianato sono fatte della stessa pasta. A me pare ovvio che questo sia altrettanto vero oggi per la società liquida in cui viviamo, ed altrettanto vero per le arti visive come per la medicina, la chirurgia e, in diverso modo e grado, per ogni mestiere che in gruppo o singolarmente si svolga. La relazione come dimensione costruttiva è importante.

Se la guerra è un’anti-arte, il mio auspicio è che tutte le arti insieme restino perennemente in lotta con la guerra, non cessino di orientarsi e ri-orientare le società umane in questo senso, perché una distinzione tra poli opposti e tra costruzione e distruzione è cruciale – la bellezza può salvare il mondo.

tratto da un libro inedito, prossimo a stampa in n. limitato di copie, intitolato “Arti contro le guerre

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