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Rabbia ed Orgoglio: Revival di Sterili Emozioni e Stati d’Animo

alle vittime dei terrorismi e delle guerre in corso. Aspettando una tregua.

“ Certo, il nazismo fu criminale … anche nei confronti dello stesso popolo tedesco, … così non fu per le democrazie alleate, benché queste, durante le loro conquiste coloniali, abbiano commesso ciò che … bisogna definire “crimini di guerra”. Se il nazismo fu giustamente condannato a Norimberga, il processo occultò però i crimini dello stalinismo, e ciò tanto più perché uno dei procuratori di quel tribunale fu Andrej Vysinskij, già procuratore dei processi di Mosca tra 1935 e 1937, che condannò alla morte e all’abiezione vittime innocenti di sue false accuse di tradimento e spionaggio. L’URSS fu un regime tessuto di menzogne, di gulag e di assassini, ma contribuì in modo decisivo a liberare l’Europa dal nazismo; per questo Vasilij Grossman ha scritto (in “Vita e destino”, edizione italiana Adelphi 2008 ) giustamente che Stalingrado fu la più grande vittoria e insieme la più grande disfatta dell’umanità …”

Edgar Morin “Di guerra in guerra. Dal 1940 all’Ucraina invasa”, Raffaello Cortina 2023

“ Una delle cose terribili della storia è che le persone usano le ferite del passato per infliggere ferite nel presente. Invece di cercare di guarire la ferita, la usano come pretesto per infliggere ad altri nuove ferite. Se si segue questa strada, per secoli sarà solo una gara di sofferenza. Ma a volte le persone possono scegliere diversamente. Spero che alla fine le persone facciano la scelta giusta anche nella mia regione. “

Yuval Noah Harari, intervista su Skype TG24, ottobre 2023

“ Sono stati compiuti tutti i tipi di astuti sforzi per farci capire che il paese i cui cittadini sono stati arbitrariamente massacrati il 07/10/2023 da un nemico che ha giurato di spazzarlo via dal pianeta è in realtà il malvagio oppressore ”

Gerard Baker, Wall Street Journal, novembre 2023

PREMESSE

Ho concluso questo articolo a metà novembre 2023: un po’ per limiti di tempo, e un po’ per il tormento che mi dà lo scrivere – che potrebbe continuare mesi e più probabilmente anni, come ogni buon diario di guerra; ogni cittadino del pianeta può fare il proprio diario finché la guerra dura e affligge poco o tanto anche chi si trova geograficamente molto lontano dai reali teatri di guerra; oltretutto, il tempo quotidiano a mia disposizione mi pare sia ogni settimana sempre meno, e il senso del discutere di violenze complesse come quelle “in gioco” fra sé e sè, come quello del vivere in attesa di soluzioni improbabile decresce col tempo. La guerra è tutt’altro che un gioco, ovviamente, e l’insufficienza del mio linguaggio fa capolino in me ad ogni parola sospinta nello sforzo di pensare, e ri-pensare, se un linguaggio contro la guerra è pensabile.

Trovo che l’aver scritto e riscritto a lungo anche in giorni “caldi” di ottobre 2023, sia comunque più importante però di molte altre cose che ho atto nel poco tempo cosiddetto “libero”. Ognuno dà forma al proprio disagio esistenziale più o meno consapevolmente e certo la pittura, la scultura, sono sempre state per me buona terapia. Tuttavia, lo scrivere a fronte di tante parole lette e ascoltate sui media disponibili nei ritagli di tempo è una necessità maggiore, forse non del tutto impoetica. Non trattandosi di gioco, mentre per certi versi ormai la pittura e il disegno lo sono, mi sono preso la briga o la responsabilità di infastidire almeno me stesso, e di riflettere contro la mia stessa desolazione, visto che la rabbia rapidamente mi risulta sterile e stupida esattamente come ogni guerra.

Dopo aver concluso lo scritto, ho dato tramite il cellulare uno sguardo veloce alla “Lezione di neuroanatomia di Rembrandt”; mi è sembrato allora naturale pensare come sia mai possibile che tante guerre proseguano, nella loro complessa stupidità: impossibile capire cosa un gran numero di individui abbia in testa in certi momenti, che segnano la cronaca e poi la storia col sangue di bambini innocenti.

Impossibile non dubitare che nella testa degli uomini ci sia poco. Pochi pensieri consentono il dirigersi verso il peggio con tale risoluta determinazione. Che le situazioni di conflitto in corso nel mondo oggi siano il risultato di reiterate e plurimillenarie incompatibilità fra gruppi umani lungo la storia pare inevitabile, ma non si dovrebbe per questo rinunciare a credere che esistono sempre rimedi, purché li si scorga, si confidi nella propria capacità di soluzioni o meglio, di compromessi migliorativi delle carneficine di innocenti, da una parte belligerante e dall’altra. E’ ben evidente in Ucraina come a Gaza che le morti innocenti sono il ricatto vile che tutti osservano.

Mi sono sforzato di ascoltare un monito che molti mi pare avvertano, per fortuna, e sento di dover esprimere, per il poco che vale, la mia solidarietà personale e di una piccola associazione verso le vittime di tutti i terrorismi e di tutte le guerre in corso, israeliane e palestinesi, ucraine e russe, tutte le altre. Lo faccio, qui e ora.

Ecco fatto.

Questo esprimere solidarietà, però, che si conclude in poche parole, non può essere un esercizio retorico, più o meno breve: la parola come rituale non mi interessa, come non mi interessano miioni di rituali della stessa specie retorica ascoltati per via mediatica ad ogni stazione radio, come ad ogni convegno o incontro di intelletti su temi sociali o politici.

Ogni giorno molte volte questo accade: qualcuno esprime tutta la sua solidarietà anche in molte aule parlamentari, più volte al giorno in diversi Stati_Nazione, e questo pare basti. Non basta affatto, e serve a molto poco. Serve tutt’altro linguaggio e qualche ragionamento diverso dal solito, per aprire le menti e gli occhi sul dissesto globale e anche più per poter sperare sia umanamente possibile mettere d’accordo almeno i Paesi sedicenti democratici, se mai, su come proporre tregue e compromessi.

La solidarietà come valore autentico secondo me esige una riflessione radicalmente diversa dagli slogan di moda. Contro gli slogan di moda bisogna avventarsi con energia, perché una strisciante omologazione di pensieri e immagini è la chiave dell’attuale stallo, dell’inutile chiacchiericcio e delle scomposte inconsistenze delle opinioni pubbliche come di molti politici, che non sanno sempre uscire da paralisi.

Voglio posizionarmi decisamente contro la nuova pericolosa escalation di violenze, come cittadino e come essere umano, senza dimenticare che chi viene attaccato e/o ricattato e/o minacciato è per molti versi obbligato dalle circostanze a difendersi.

Ritengo pertanto che tutti dovremmo invocare non tanto una pace e nemmeno una giustizia – che suonerebbero come parole vuote e come retorica ipocrita, ma una indispensabile tregua, che è cosa ben diversa dall’invocare ipocritamente la pace. Di una pace giusta, che più di qualcuno ha ripetutamente invocato facendo esercizio retorico, oggi non si vede e non si può vedere la ben che minima traccia. Diversamente, una tregua è indispensabile per proporre compromessi che scongiurino il permanere anno dopo anno in condizioni di guerra.

RABBIA E ORGOGLIO

Alcuni slogan che oggi potremmo sarcasticamente chiamare “emoticon” tornano di moda e sembrano davvero imperituri nei paesi democratici; sembrano resistere meglio quelli decisamente più equivoci, quelli che vinsero un’attenzione mediatica strepitosa molto tempo fa, e che ritengo veramente tossici – uno in particolare mi è sembrato estremamente tossico sin dalla sua comparsa, settembre 2001, per quanto splendidamente Oriana Fallaci seppe scrivere e argomentare a partire da quello, con virilissima vis retorica.

Lo slogan reale fu “La rabbia e l’orgoglio”: ci ricordiamo quasi tutti credo, in Italia, come comparve questa frase sui giornali italiani, quello che alimentò in tempi diversi da quelli odierni, e come dilagarono emozioni simili in occidente, un po’ per esorcizzare la paura, elaborare il lutto, il trauma di un nuovo modo di far leva mediatica sulle immagini, che a più riprese ha connotato il terrorismo come un “nuovo” fenomeno complesso.

Comunque la si pensasse allora e comunque la si pensi oggi, non c’era e non c’è alcun bisogno di tirar in ballo né rabbia né orgoglio, se si vuole comprendere una realtà complessa – rabbia e orgoglio non sono argomenti né ragionamenti.

Una prima riflessione in premessa allora: saper scrivere bene, saper argomentare meravigliosamente, padroneggiare le arti della retorica e i sofismi, non significa necessariamente avere descritto i fatti né avere validi argomenti e ragioni convincenti dalla propria.

Al contrario. Proprio sulla base dell’indifferenza alle palesi verità globali o alle spicciole verità fattuali, nasce e si sviluppa la rettorica: l’arte dei sofisti come capacità mercenaria, sin dai tempi di Socrate. I toni e i gesti di eventuale accompagnamento dovrebbero mitigare l’idea discutibile, che esista “una guerra di parole” (il foglio, 13 novembre 2023).

Quel che da giovani conviene imparare a distinguere, è tra la capacità di discutere parlare scrivere, e la capacità di descrivere fatti comprovati ed esprimere ragioni convincenti perché tengono insieme semplicemente la enorme complessità delle diversità culturali e degli esseri umani.

Ancor meno, se ci stesse a cuore in primis l’essere umano e la specie umana in quanto tale, valide ragioni starebbero in chi promuove guerre facendo leva sugli sentimenti e stati d’animo che disconoscono ovviamente ed istantaneamente, i medesimi sentimenti negativi del nemico.

Disconoscere il nemico significa non solo rigettare l’etica cristiana, che inviterebbe a porgere guance e ad amare nemici, ma anche ogni etica, e condannarsi a semplificare stupidamente la grave complessità in cui si originano le guerre.

A questo proposito affermo di passaggio che non credo minimamente nella banalità del male, e credo che la stessa Hanna Arendt colse con acume il terribile atteggiamento di chi intenda difendersi banalizzando le proprie orrende responsabilità per folli atrocità commesse.

E purtroppo scriver bene non significa necessariamente mettere a fuoco quanto basta gli abissi del pensiero e del sentire – come del non sentire, e nemmeno dire la verità: non sono tanto le parole in sè quanto le parole menzognere – le menzogne, a funzionare bene come armi di guerra, laddove parole sincere, ragionamenti pacati e intelligenti possono essere invece le uniche vie per una tregua, per un temporaneo compromesso e una pace futura; il sathiagra e la nonviolenza possono dove parole di verità non arrivano a smuovere; in mezzo alla “guerra mondiale a pezzi”, slogan una volta tanto chiaro e sensato vecchio conio di Papa Bergoglio, oggi 2023 il laico Edgar Morin a 101 anni suggerisce: il fraintendimento, e la menzogna, sono presenze garantite, attese da entrambi i fronti in ogni conflitto, moderno e ancor più post-moderno e trans-pandemico.

Evitiamo allora subito un fraintendimento e un equivoco: Oriana Fallaci era certamente sincera, molto convinta d’esser nel giusto, della necessità di esprimere tutta la propria rabbia e tutto l’orgoglio possibile. Ma molti oggi che lo ripetono non credono più in nulla, non hanno presenti fatti storici né passate esperienze giornalistiche, e fanno per imitazione e di default, affermazioni simili; alcuni che la seguirono credono ancora nell’orgoglio identitario occidentale di appartenere ad una civiltà superiore. Silvio Berlusconi ad esempio a un certo punto dichiarò apertamente questa superiorità occidentale, molti lo seguirono e post-mortem ancora lo seguono. In questa c’è tutta la forza di trascinamento delle parole e dei sentimenti camuffati da pensieri, attraversano vite, attraverso posizioni politiche in perenne contrapposizione sterile, guicciardiniane antiglobali e che non cambiano.

Mi rassegno all’idea di combattere certi modi di argomentare finché vivrò, finché la morte sopraggiungerà per cert i versi consolandomi, perché questo farà la mia differenza con l’intelligenza artificiale che già scrive articoli in prima pagina sul Washington Post e influenza le opinioni pubbliche di Paesi Democratici.

Non mi sono mai riconosciuto e non mi riconosco in nessuna superiorità di civiltà, in nessuna ostentazione di superiorità di razza o cultura, perché rivendicare questi sentimenti rischia di tradursi immediatamente nel far torto a qualcuno e a se stessi insieme.

Il rischio ovvio è il prevaricare dell’uomo sull’uomo, il negar diritti alla donna al bisognoso o al debole. La premessa o il titolo rabbia e orgoglio vanno aboliti, se si intende aprirsi a un dialogo improbabile con qualsiasi essere dissenziente, in conflitto, con qualsiasi nemico.

E’ proprio questo rabbioso orgoglio che va combattuto, anche per il solo fatto che si cercano argomenti convincenti. Questo fraseggio è il meno convincente e per me il più stucchevole di tutti.

Al di là della ovvia e indiscutibile necessità di difendersi con fermezza da un feroce attacco omicida, muovere guerra è il perno politico della posizione di Netaniau e della destra israeliana violenta, che per fortuna trova molti critici ovunque e che credo minoritaria nella società israeliana stessa. Analogamente, il popolo palestinese non si identifica affatto interamente con Hamas, né con altri gruppi terroristici, per quanto i pericoli dell’espressione di dissenso in Palestina siano maggiori che non tra gli ebrei.

Inoltre, i commenti pubblicati nei giorni scorsi sui media in risposta agli orrendi attacchi terroristici di Hamas contro ebrei innocenti in Israele del 07/10/2023, attacchi a cui seguono reazioni e una nuova escalation di guerra per tutto il mese, anche quando non chiamano immediatamente in gioco sentimenti e slogan, semplificano. Gli argomenti messi in campo sono troppo spesso pochi. In troppi, come farà imparando l’intelligenza artificiale, hanno copincollato i vecchi slogan, e in questo per me i testi sono sconvolgenti tanto quanto le immagini, per certi versi di più. Le immagini sono meno astratte delle parole e rispetto ad esse, dato l’orrore, è più facile distogliere lo sguardo, mentre i pensieri e le parole procedono, iniziano a gironzolare intorno a deboli flussi di coscienza – al mio, fanno un effetto pessimo.

L’attesa incursione israeliana nei sotterranei di Hamas in territori palestinesi è stata dichiarata, è iniziata, sarà perpetrata, e i titoli – va ricordato che la maggioranza dei lettori su carta e su internet legge solo titoli, non ha tempo né forse giustamente voglia di andar oltre – prevedono “ … una guerra lunga e difficile …” (Sole24 ore, Domenica ottobre 2023).

Sin dal 09/10/2023 articoli di approfondimento hanno riportato nella memoria di quasi ogni lettore i commenti dopo l’11 settembre 2001. Lo stesso Biden ha esplicitamente invitato il governo israeliano a non fare gli stessi errori degli USA fatti nel 2001, pur senza esplicitare pubblicamente quali siano stiati questi errori. Molti quotidiani nordamericani hanno attribuito al vecchio Presidente americano un invito netto a “ … contenere la rabbia”. Che Biden sia provatamente molto in là con gli anni, anche per questa questa anomala saggezza o concessione, e disponibilità ad ammettere qualche errore americano del passato, non so. Mi è piaciuta anche se aspetto di capire meglio, a cosa si riferisse.

Certo è che Edgar Morin a 101 anni coi suoi pensieri suggerisce un valore inestimabile di chi mantiene buona memoria e sopravviva a lungo: una fortuna che si possano facilmente riscoprire i vantaggi di grandi anziani, tenerli in vita è perfino, talvolta, potenziale vantaggio, non sempre un peso economico e basta, per le comunità che assistono masse crescenti di grandi anziani.

Che un Presidente americano ammetta degli errori è in ogni caso, ripeto, del tutto inconsueto: io penso fu un grave errore geopolitico dopo l’11 settembre 2001 sottovalutare l’Iran, e per questa sottovalutazione, errore attaccare l’Iraq, che non aveva affatto grandi armi di distruzione di massa nei propri arsenali; questo e altri errori, come gli errori politici di Netanyahu suggeriscono tutt’altro che opportunità di orgoglio alla base di una riflessione saggia sui conflitti Oriente-Occidente e Israele-Palestina. Solo di una revisione critica si potrebbe forse, andare orgogliosi. Ma una revisione critica delle Società occidentali viene forse interpretata come un cedimento, e come un suggerimento da non offrire al nemico, che pure potrebbe usare la propria riflessione critica per cogliere l’inutile disumana follia del terrorismo e della strategia del ricatto e degli ostaggi.

TREGUE E COMPROMESSI

In risposta a un discutibile articolo sul foglio il 13/11/2023 direi questo. Che il cessate il fuoco a Gaza vada collegato alla liberazione degli ostaggi e alla proposta di due Stati per due popoli, è ovvio.

Meno ovvio che si possa proporre la creazione di popoli. I popoli non si creano, la loro autodeterminazione è confusa dalla parole insinuate, e in ogni teatro di guerra i popoli sono innanzitutto gli innocenti che pagano la violenza di chi li governa. La parola tregua e i compromessi devono essere riproposti come valori autentici, nel letamaio in cui globalmente ci si trova.

Non intendo perde tempo a filosofeggiar troppo sulla parole come arma di guerra, ma concludo dicendo che non sono le parole di per sé armi di nulla. Si veda sopra, le menzogne e i sofismi sono armi di guerra, la verità e la nonviolenza, inclusi i suoi risultati scarsi, i compromessi, sono armi di dialogo, tregua, eventuale pace.

Intendo soffermarmi sui sentimenti per approdare all’unica opzione che ostinatamente credo vada sostenuta: invocare ripetutamente una tregua, quotidianamente. Se serve, per anni, in mille forme differenti.

I sentimenti negativi non meritano altro che una pausa di riflessione, se serve, anche lunga: un ventennio di riflessione capita di farlo, anche quando solo notizie e non bombe irrompano traumaticamente nelle proprie vite personali, non solo in teatri di guerra.

Potrei dire parafrasando Samuel Beckett nel reale ormai ridotto a teatro dell’assurdo:

Waiting for a global truce”.

Una tregua umanitaria, e non solo un corridoio umanitario, è l’unico compromesso sensato per tutte le molte guerre in corso: resta secondo me l’unica opzione umanamente perseguibile, anche se è ben evidente che non c’è alcuna giustizia proponibile in una tregua, ma solo il risparmio di vite innocenti. Una qualche forma di giustizia potrebbe scaturire proprio dalla tregua a condizione di consentire un dialogo tra le parti in conflitto. Non c’è alcuna giustizia assoluta, e niente è troppo giusto o risolto. Giustamente afferma Sergio Fabbrini ricordando Bo Rothstein, che il conflitto israelo-palestinese dovrebbe essere liberato da semplificazioni come dalla radicalizzazione religiosa , che è invece la fonte dell’attacco di Hamas e del mancato riconoscimento reciproco di due popoli che sacralizzano territori contesi. Una tregua è un prerequisito per limitare i danni futuri che si aggiungono a quelli passati e presenti in territori che verranno distrutti dalla guerra stessa, provocando danni ambientali, che renderanno progressivamente inabitabili proprio quei territori che 2 popoli sacralizzano.

E’ calzante in proposito quel che il grande drammaturgo Samuel Beckett, in “Waiting for Godot”, fa dire ad uno dei suoi personaggi

“ Ci piaccia o no, siamo noi, qui ed ora, l’umanità”,

Questa breve frase è una magistrale sintesi di cosa significhi fare Teatro, oltre che della ineludibile assurdità dell’esistenza; è la frase più sensata di tutte le parole del dramma citato: di fronte al teatro dell’assurdo presente, all’assurda distruttività umana, è anzi il messaggio fondamentale, tutt’altro che assurdo, di tutti i drammi di Beckett. Per paradosso, il messaggio del teatro dell’assurdo è tutt’altro che assurdo. I teatri di guerra sono assurdi in quanto questo “teatro” è la realtà cui assistiamo, sempre più incessantemente presi dal persistere giorni mesi anni di notizie lontane: in era mediatica, un assurdo aggiuntivo, una situazione di spettatori impotenti nella quale alcuni popoli e famiglie e vite umane si perdono, ogni giorno, mentre altre si perdono realmente, perpetrandosi catene di morti, torture, stupri, suicidi, dolori e seti di vendette.

Che al mondo vi siano oltre sessanta conflitti in corso è motivo di altra assurda vertigine, a cui chi ha la fortuna di vivere in parti del mondo non colpite da guerra, lambite solo dal rischio di un attentato terroristico, si abitua rapidamente cambiando canale, cliccando su argomenti di minor rilievo e maggior sollievo.

Ma il sollievo, oggi, del distrarsi con altro, dello slogan tutto quanto fa spettacolo, a me sembra anche più insensato. Non pensare alla deriva umanitaria ed umana lascia nel subconscio proprio rabbia, quindi proprio su questo sentimento penso dover tornare, finché serve, a riflettere. Riflettere correttamente è il solo modo per spegnere completamente la rabbia, l’unica dignità e l’unico sollievo senza orgoglio che spetta allo sforzo di restare umani, e questo intendo fare innanzitutto in me stesso.

Non riesco a impedirmi di ricordare quasi ogni giorno come personalmente vissi e come in parte continuo a vivere l’11/09/2001; mi è per varie ragioni, anche personali, impossibile dimenticare quel che provai e pensai, anche in reazione ai media e alle opinioni politiche che allora subito si contrapposero, in modo concitato, mentre si preparavano nuove guerre.

Si disse allora – per certi versi giustamente – dopo l’11/09/2001 “Niente sarà mai più come prima”. Questa è un’ovvietà che allora risultò a tutti peso evidente, e ripeterlo aiutò ed aiuta oggi ben poco: ripetere la stessa cosa dopo il 07/10/2023 resta di facile richiamo, si ripercuote ipnotica senza spiegare niente nell’arco di intere giornate di cittadini già invitati a non pensare da fin troppi stimoli: uno slogan aiuta a dimenticare il successivo, il giorno dopo.

A proposito, il “niente sarà mai più come prima”, in realtà una spietata ed ovvia legge del tempo, del tutto contraria alla tesi della fine della storia di Fukujama, una poesia molto recente sostiene con malinconica ironia e profondità:

“Io non sono più quello che ero un quarto di secondo fa …
Noi siamo un quarto di secondo che si sposta nel tempo.“

(Paolo Milone “Astenersi principianti”, Einaudi 2023)

Purtroppo però certe frasi inscritte nel proprio vissuto restano uguali, mentre noi cambiamo ogni quarto di secondo, anche vent’anni: riaprono gli stessi cassetti e rischiano gli stessi ottusi default.

Torno, quindi, alla rabbia e all’orgoglio, ripresentati come lo stato d’animo necessario ed opportuno, se non addirittura il giusto modo di reagire in questi giorni. Questo revival di idee datate stantìo, assurdo e angosciante, a reiterarlo, diventa anche un po’ cretino.

Questa opinione virale reiterata oggi mi sbigottisce e rattrista.

Il gergo giornalistico e populista in via di affermazione globale prende a prestito comodamente il passato, e poi ci chiacchiera sopra. Si descriverebbe, in uno slancio fasullo di pensiero critico, il fenomeno di rispolvero dei vecchi slogan – compresa la citazione del 2001 di Oriana Fallaci, che fece un libro di grande impatto, grande forza retorica, ed ebbe a suo tempo grandissimo successo editoriale – come “un riflesso pavloviano”.

Ma questa descrizione giornalistica superficiale, “riflesso pavloviano”, che criticherebbe debolmente il vecchio slogan tornato virale e vincente, a me suscita tristezza: semplifica e non convince.

Secondo me il riflesso di cui oggi si parla in presunti approfondimenti critici, è diverso da quello noto dei cani di Pavlov. Semplificare è tanto comodo e veloce quanto assurdo. La sintesi di complessità è il cardine di un pensiero lucido sui disastri che le guerre e tutte le violenze comportano, persino quando una guerra risulti in medias res necessaria per ragioni difensive. La necessità di difendersi apre all’obiettivo di ottenere il più rapidamente possibile corridoi umanitari così come una tregua, o niente risulterà più rimediabile, o la necessità rischia di diventare col tempo un alibi e una menzogna.

Un certo modo di reagire, con rabbia e orgoglio, solletica poco la ragione nella frustrata fame di violenza che alberga da sempre nella profondità folle della psiche umana che non somiglia ai cani di Pavlov. Se mai, certe reazioni umane violente e peggio che bestiali sono imparentate con l’aggressività omicida, intraspecifica, degli scimpanzé – non c’è un corrispettivo nelle reazioni dei bonobo, che sono primati quasi identici ma con comportamenti sociali prevalentemente matriarcali – o al limite (ma un articolo su le scienze qualche anni fa faceva differenza tra scimpanzé e ratti ) con la violentissima aggressività intraspecifica, omicida, tipica dei ratti.

L’aggressività omicida intraspecifica, che ci accomuna a poche altre specie animali, è una rarità tra le specie viventi; e un tipo di aggressività che si accresce provatamente in situazioni di cattività tra i ratti, meno tra gli scimpanzé, in condizioni cioè di affollamento. Secondo dati scientifici consolidati, per nostra fortuna pare gli scimpanzé nostri parenti siano un poco più adattabili dei ratti agli affollamenti – Covid permettendo. La frustrata fame di violenza che caratterizza gli umani – soprattutto maschi, ma non solo – va considerarla il peggior rischio umano ( o disumano, se si preferisce) di default tra i più atavici e insieme i più attuali della nostra specie.

Non avremmo tante guerre e tanti femminicidi contemporanemente nel XXI secolo, se non avessimo imparato ben poco su come controllare i peggiori impulsi, tra cui la rabbia. Non avremmo tanta violenza se avessimo costruito motivi solidi di orgoglio autentico. Per questo, di stati d’animo ci conviene ragionare.

Rischioso, a mio parere – soprattutto in una società umana sia ad oriente che ad occidente da millenni fortemente maschilista, razzista, fondata sul terrore in molte forme e gradi pur variabili in diversi luoghi e momenti – è continuare a sragionare di sentimenti, quasi ragionare fosse una sdolcinatura, cosa che non si addice ai venti di guerra. Alla luce di nuove acquisizioni scientifiche, invece, va urgentemente ri-proposto un tema: quali sentimenti e quali motivazioni inconsce e subconscie muovono le religioni, le polarizzazioni entro le società umane, verso l’apocalisse e l’autodistruzione della specie e del pianeta? Sacro dovrebbe diventare ogni compromesso volto a convivere pacificamente, La sacralità dell’umano dovrebbe consistere nel far luce sulle diaboliche trappole di una religione che non riconosce la speculare necessità laica del rispetto delle religioni altrui.

Bisogna proprio, urgentemente, ragionare insieme di sentimenti negativi, quelli che si declinano senza sdolcinature, presunti virili, nello svilire l’altro. Nessun umano (men che meno io) è esente da profondi sentimenti negativi, e il sacro dovrebbe consistere nel misurarsi con essi per eliminarne le cause radice. Analogamente sentivano nel corso del secolo breve suggerivano i poeti e gli artisti – si pensi a Wistan Auden, vi prego la verità, sull’amore.

Non si tratta, credo, di parlarne da esperti, medici o da psicologi, ma piuttosto di spiegare semplificando quanto basta, da esseri non ancora totalmente disumanizzati e intontiti dalle intelligenze artificiali o dai meccanismi insiti nelle operatività incessanti dei nostri pc e cellulari: parlarne tra cittadini che hanno la responsabilità di educarsi reciprocamente alla conoscenza dei fattori emozionali ed esistenziali determinanti; ci si provi almeno ad ascoltare, divulgare, meditare alcuni rilievi scientifici, i più recenti, al riguardo: non sarebbe affatto male.

Proseguo dunque, perché rabbia ed orgoglio questo sono: emozioni, stati d’animo, che troppo spesso fanno leva e condizionano il perenne reagire per un quarto di secondo alle quotidiane notizie di violenze tragiche, in assenza di un pensiero critico, dell’opinione pubblica. Ci condizionano i sentimenti negativi al buon mercato di poche “parole chiave”, brevi slogan, e ne derivano traumi psicologici indelebili, il rifiuto dell’altro quale sia, e lo stato d’animo della gente a questi traumi si sottomette. Si perde per le stesse dinamiche in questioni molto più spicciole la capacità di tutti di mantenere e costruire relazioni sociali, tutte attività che rischiano di peggiorarci, oscillando un po’ secondo le notizie, di giorno in giorno.

Le nostre relazioni sociali dopo l’11/09, durante il COVID, e dopo lo scoppio della guerra russo-ucraina sono peggiorate. Lo sostiene a 101 anni Edgar Morin nel suo ultimo lucidissimo libro “Di guerra in guerra”, che è anche uno stringato pro-memoria ineludibile sulla fenomenologia della guerra in generale. Penso che questo peggioramento continui a perpetrarsi ogni quarto di secondo senza che qualche pensiero ponga freno a una deriva della sensibilità umana, delle fraternità fra individui e fra popoli.

Per inciso, e molto in breve: la mancata risoluzione ONU del 29/10/2023 dimostra una divisione inquietante, una incapacità di proporre non la Pace ma persino una tregua, e la necessità di re-istituire un nuovo organismo che potremmo chiamare organizzazione mondiale del disarmo e delle democrazie, come giustamente da molto tempo solo pochi radicali ripropongono. Il popolo russo, palestinese e iraniano dovrebbero essere i primi invitati ad aderire ad una organizzazione mondiale delle democrazie e a parteciparvi con proposte che potrebbero migliorare i guasti delle democrazie occidentali. Per inciso, penso che i radicali abbiano ragione a riproporre azioni politiche ritenute a torto marginali, di cui si dovrebbe dare molta più informazione, nel nostro Paese e in tutti i paesi realmente democratici. Proposte creative del resto sarebbero sistematicamente marginalizzate dalla democratura italiana, da destra e da sinistra.

Del tutto a prescindere, tuttavia, da come la si pensi politicamente, su come fronteggiare il terrorismo, le guerre e le violenze domestiche che ci abitano, razzismo e femminicidi inclusi, voglio affermare un paio di idee semplici, che a me servono per chiarirmi idee e controllare proprio le emozioni negative.

PROMEMORIA

La prima idea è che ricordare senza distorsioni fatti accaduti negli ultimi decenni è fondamentale, in un’epoca durante la quale si assista a falsificazioni quotidiane di fatti storici e di cronaca: occorre ristudiare la storia di Israele e Palestina, resistendo all’erosione della memoria, letteralmente trasferita e caricata fuori dalla nostra mente, nei nostri PC e cellulari. Ed occorre ricordare che il dramma di rifugiati guarda caso dopo le guerre non ha riguardato solo palestinesi ed ebrei.

Come si vede, è una catena e una nemesi, di guerra in guerra. La guerre producono rifugiati e i rifugiati producono nuove guerre. L’erosione di questo concetto è facilitata dalla riscrittura menzognera della storia che avviene coll’aiuto dell’eliminazione di ogni dissenso e di ogni pensiero critico nei paesi totalitari.

Questo accade con molta ostinazione sistematica ed efficacia oggi come ieri in Russia, ma le democrazie, liberali o illiberali, non sono immuni da omertose dimenticanze e falsificazioni del passato, recente e meno recente. Bene ricordarlo, a dispetto di ogni critica che voglia chiudere le discussioni sulla “contestualizzazione” (concetto di cui tratta il foglio il 23/10 e anche il 13/11/2023).

Perché mai dovrebbero essere immuni da menzogne le democrazie, se sono i luoghi della libera e anche stupida opinione dilagante, della retorica obnubilante, dell’argomentare strafottente? E chi dimentica che basta una virgola per modificare il significato di un’arguzia e di una notizia? Da falsificazioni ed erosioni derivano in un luogo o nell’altro comportamenti, che deteriorano i rapporti personali e sociali, rendono i dialoghi rari e stentati. Bisogna scovare e bandire ogni sottile fraseggio che eluda le prospettive di una de-escalation come impraticabile, sia in Ucraina che a Gaza. La de-escalation è elusa per argomenti pretestuosi, che non considerano i fattori cumulativi psicosociali e fisico-ambientali quotidiani del permanere in conflitto: immolarsi e non risolvere pur di non tradire cause o presunte identità, sacralità o virilità?!

La seconda idea su cui mi soffermo è la seguente: per pensare e agire con intelligenza l’ultimo stato d’animo da auspicare credo sia la rabbia; quanto all’orgoglio, dipende.

Di cosa potremmo o dovremmo essere orgogliosi? Della nostra civiltà? Di qualsiasi civiltà superiore che si scontri e non si incontri, che non riconosca il valore e la ricchezza delle altre? Ciascuno dovrebbe restare orgoglioso della propria identità o della propria Patria, e umanamente non di quelle altrui? Di quale tipo di democrazia oggi dovremmo andare fieri?

Anche in quest’ultimo caso, non trovo che essere orgogliosi sia il modo migliore per difendere efficacemente oggi la democrazia come valore, o meglio come un volano e una leva per il riconoscimento del valore di regole non violente per rovesciare governanti periodicamente.

La democrazia è ovunque palesemente in crisi e a rischio di diventare ovunque illiberale e corrotta, o peggio, totalmente fasulla, preambolo di dittatura. Marco Pannella usò molte volte a proposito il termine democrature, a ragione, per indicare pseudo democrazie dove il diritto a conoscere per deliberare, l’iniquità, il mancato rispetto dei diritti – basti pensare alle carceri – è talmente frustrato da somigliare a regimi totalitari. Il numero di suicidi nelle carceri italiane potrebbe bastare a far aprire gli occhi su queste nequizie che perdurano da troppo tempo per carenza dei sistemi di informazione.

Per questi motivi, pensare oggi che rabbia ed orgoglio siano leve giuste per una risposta alla gravità di fatti bellici in corso, è per me quanto mai fuori tempo e luogo. L’orgoglio, dipende perché debba essere celebrato. La rabbia, direi mai, e lo dico a maggior ragione perché sono uno che si arrabbia più volte al giorno, per lo più con se stesso. La rabbia serve gestirla, ognuno la sua, e serve solo se riesci nonostante ci sia a deviarla verso azioni costruttive. Nel caso contrario, non c’è nulla di cui andar fieri, né del sentimento né della scelta fatta e delle azioni compiute sull’onda emotiva negativa.

Dopo decenni sto imparando non tanto a controllare la rabbia, ma a convincermi sempre della sua (della mia) ridicola inutilità, in caso la si lasci sfogare. Ogni volta che mi arrabbio senza controllo mi dimostro incapace di risolvere alcunché, spesso incapace anche di pensare. Queste considerazioni vorrei invitassero tutti a discutere la cosa. E’ efficace a controllare la rabbia il pensare, il discutere, il cercare insieme soluzioni di compromesso, il nutrirsi di spirito di osservazione e spirito critico insieme.

Per come andarono le cose dopo l’11 settembre 2001, a cui seguirono

a) anni di violenze in Afganistan, grosso modo una decina prima di riuscire a scovare Bin Laden, e
b) una clamorosa falsificazione (la famosa pistola fumante di Powell, che non esisteva) a giustificare l’entrata in guerra contro l’Irak, fino

c) al mancato esilio, alla condanna e uccisione di Saddam Hussein

d) altri anni di violenze fino al ritiro repentino di Biden dall’Afganistan,

non ricordo motivi di orgoglio, né motivi per ritenere la civiltà occidentale e nemmeno l’umanità cui apparteniamo una specie, una razza superiore. Terroristi e dittatori, come Putin, vanno fermati e annientarli è, in circostanze estreme, eccezionali per pericolosità e contesti, l’unico modo per difendersi. Persino Gandhi giustificò in uno scritto dilemmatico certe risposte nonviolente indispensabili a fermare un pluriomicida. Tuttavia, lo stato d’animo che certe tristi necessità di violenza – la minore possibile generano, è lontanissima dalla rabbia: resterebbero solo profonde tristezza e amarezza, cui si aggiunge disgusto per quel che nella società globalizzata, si è e si sarà costretti come individui e come comunità a fare.

Una informazione scientifica, illuminante, cruciale, è forse l’unico piccolo motivo di orgoglio giustificato per l’umanità attuale: sta in certe nuove discipline scientifiche, che meriterebbero molta più attenzione dei media, una dignità che lascia sperar in meglio. Anche la conoscenze nel campo delle emozioni non saranno più come quelle di prima. Nei 22 anni che ci separano dall’11/09/20021 molti scienziati, appartenenti a diverse discipline biomedico-scientifiche, per fortuna, hanno collaborato in modo eccezionale, di cui si può in effetti essere orgogliosi, come essere umani. Gli ultimi 20 anni sono stati proficui per ragionare meglio che in passato, rispetto all’enorme tema delle emozioni e degli stati d’animo umani, quegli stati che dipingono la qualità del nostro vivere ed anche salvano o distruggono spesso le nostre giornate, a volte le nostre vite come individui e in caso di guerre come popoli e comunità.

Niente è più come prima, come si disse 20 anni fa, niente è più come prima anche in molti campi scientifici: anche nelle scienze che studiano le emozioni umane. Niente fu più come prima, del resto, non solo dopo l’11, ma anche anche dopo il 12/09/2001. Il 12/09/2001 infatti è la storica data (ben raccontata in un libro da un grande epidemiologo italiano) in cui una delle riviste scientifiche maggiori al mondo pubblicò n sinergia con altre riviste l’ammissione e la documentazione estesa di pesantissime truffe tentate e smascherate, in ambito scientifico. Si trattò di un evento senza precedenti: vennero illustrate falsificazioni cognitive e invenzioni belle e buone, fatte passare per scoperte e innovazioni medico-scientifiche. Questi fatti costringono a rivedere e storicizzare quelle che sono scoperte scientifiche interessanti, quelle che lo sono meno, e le bufale.

Si dovrebbe diventar capaci di difendere la scienza meglio, e lo si può fare senza, probabilmente contro l’incalzante e strapotente intelligenza artificiale, solo se si ha molto spirito critico e un minimo sufficiente di coscienza ed attenzione a parole e idee fuorvianti. Una questione non trascurabile è che l’IA offre risultati di giga statistiche, e non è una mente cosciente, non equivale ad umano nemmeno per gli umani molto stupidi e molto cattivi. E’ altro, e non vive. Difendersi, dai prodotti dei nostri sogni, come ammonì Francisco Goya nell’800.

Per coincidenza di date – forse per sincronicità junghiana, qualcuno direbbe per curiosi transiti astrali – la pubblicazione di queste truffe biomedico-scientifiche ‘epocali’ passò quasi el tutto inosservata ai media, troppo impegnati da altro, la data era troppo vicina all’attacco alle torri gemelle.

Oggi, la scienza e la pseudoscienza forse fa appena un po’ più notizia, ma temo ancora troppo poco di più, e in modi non di reale “beneficio reciproco” (vedi oltre). Sembra che tutto questo interessi poco i media, e che l’uso di parole come “rabbia” e “orgoglio” siano ancora, indiscutibilmente il “must” di cui vantarsi. Invece. I meccanismi mentali alla base delle strutture e delle interazioni sociali sono palesemente una delle grandi sfide cognitive del XXI secolo.

Lo dico ogni giorno a me stesso: vedi, oggi, di diventare meno stupido, o se preferisci, un po’ più consapevole di cos’è la mente, l’essere e l’animo umano. Un abisso imperscrutabile, e una serie di forze mostruose, tra le quali la rabbia, da gestire. Ma ecco l’info consolante, da cui ripartire, dimenticandola domani?

LA NEUROSCIENZA STUDIA I DISPETTI

Nel XXI secolo, si è verificata la nascita delle cosiddette “neuroscienze sociali”, materia ampiamente trans-disciplinare. Il termine “neuroscienze sociali” è stato coniato nel 1992 da John T. Cacioppo (1951-2018), già direttore del Center for Cognitive and Social Neuroscience all’Università di Chicago, che dedicò la vita ai meccanismi neuronali implicati nelle interazioni sociali e alle emozioni correlate; anche per merito di John Cacioppo e di sua figlia Stephanie, psichiatra, oggi si ritiene abbastanza assodato che esistano 4 tipologie di comportamenti sociali nell’arco delle specie viventi che vanno dai batteri agli esseri umani:

  1. beneficio reciproco – un comportamento sociale che avvantaggia tutti gli individui coinvolti nell’interazione;
  2. egoismo – un comportamento che avvantaggia l’agente a discapito di tutti gli altri;
  3. altruismo – un comportamento costoso ( a volte perfino pesantemente dannoso) per l’agente a vantaggio di un altro/ di altri;
  4. dispetto – un comportamento costoso ( a volte perfino pesantemente dannoso) sia per chi fa i dispetto sia per altro o altri che lo subiscono. Tecnicamente, il dispetto uno lo fa sempre un poco anche a se stesso.

Non pare per ora esistano altre tipologie riconosciute di comportamento tra i viventi.

Secondo me la guerra rientra nel comportamento del quarto tipo.

Sarebbe opportuno soffermarsi a pensare su quanto sopra, che ha a che vedere con emozioni e stati d’animo indotti, per mille ragioni da informazioni, da semplici opinioni cui non diamo abbastanza peso, alle quali non ci ribelliamo, che archiviamo in un subconscio o inconscio in realtà ben vitali, come se il pensiero omologato non fosse anche il nostro. Per non deviare dal tema, breve riflessione finale: secondo me gli atti terroristici e le guerre rientrano nella tipologia di comportamenti collettivi del quarto tipo – sono dispetti, che Freud potrebbe pensare come sadomasochismi, e che fanno tra i viventi la specie umana una particolarmente cretina, o se si preferisce, detto più diplomaticamente, distruttiva. L’idiozia di questa distruttività purtroppo coesiste follemente con le indiscutibili prove di intelligenza e saggezza che la nostra specie ha dimostrato. Se siamo una cosa, e insieme il suo contrario, ci conviene piantarla con la rabbia e l’orgoglio, almeno in guerra.

A me basta e basterà l’idea di una sola vittima, di guerra o di terrorismo, per non essere mai orgoglioso; oggi non è più tempo per chiudere gli occhi, per non provare a cambiare quel che qualcuno si ostina a giudicare “natura umana”, vaga idea fasulla: e per ritenere che tutti dovremmo invocare una tregua ogni giorno, fino a che tregua non si farà.

I fatti ci avvicinano al rischio di estinzione della specie umana, che invita a inventarsi il miglior disarmo progressivo globale che sia mai stato pensato, quanto prima, finché niente, finalmente, sarà più come prima.

Franco

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Foto: Ministero dell'Interno ucraino

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