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La Guerra Come Funziona? Distrugge

 Comprendere non è giustificare, è lottare contro le guerre.

A maggior ragione se si ritiene che la guerra vada abolita, ridotta prima o poi a un ricordo del passato, non ci si può accomodare a credere che moventi sensati per ciascuna guerra non vi siano stati, e non ci siano. Al contrario, è ben chiaro che ci sono sempre stati. A questo proposito, vorrei accertarmi di aver capito bene cosa intendesse Gino Strada affermando – e lo fece più volte, 

1) di non essere pacifista, ma semplicemente  contrario alla guerra. Condivido. Tutti dovremmo seguire questa posizione. Essere pacifisti è troppo comodo ed è presto, oggi 2023, per poterlo dire: finché la guerra infiltra molti aspetti della vita sociale in molti posti del pianeta, il pacifismo è incompatibile con il senso di giustizia e con la pace; 

2) che la guerra non funziona. Condivido meno, a meno che non si parli con intento metaforico e provocatorio, della distruzione che produce. Credo questa sia l’affermazione fondamentale fatta da Gino, una provocazione. Fuor di metafora, purtroppo, la guerra funziona benissimo nel distruggere tutto, e  più che la guerra la sua cessazione a volte raggiunge talvolta alcuni degli scopi di chi l’ha mossa al prezzo di morte e dolore altrui; è per questo che va abolita. Va abolita benché per certi versi funzioni, e se non fosse così sarebbe già stato facile abolirla.

Ci si deve chiedere, a maggior ragione se come me si nutre l’ammirazione che Gino Strada merita, quel che lui forse ha dato per scontato, anche nel suo ultimo libro, quasi un’autobiografia e un lascito finale. Cosa intendeva dire Gino Strada ? E cosa intesero dire Erich Fromm, Bertrand Russell, Albert Einstein, Albert Schweitzer, Lev Tolstoj e Mohandas Gandhi, con la loro ferma opposizione alle guerre? Giusto chiederselo anche perché restarono e restano prevalentemente inascoltati, fino ad oggi. La straordinaria lotta nonviolenta di giovani donne e uomini in Iran lascia sperare che qualcosa stia veramente cambiando, ma le guerre continuano. La gravità di quanto succede in molti luoghi diversi, il fatto che le guerre si continuano a fare, dopo i pensieri di grandi pensatori totalmente contrari alla guerra, a me suggerisce che bisogna imparare ad insistere. Nessuno dei grandi saggi sopracitati era poco ostinato, e da Loro voglio imparare. 

Sembra si resti indifferenti alle domande sul perché, come la guerra funzioni, quando la complessità del mondo globalizzato cresce, problematizza ogni aspetto bellico presentandone elementi inediti, in un affollamento di contraddittori interessi in conflitto. Al momento tra guerre, COVID19, crisi alimentare idrica democratica e climatica, pare che nulla funzioni. Ma non è esattamente così, sarebbe ingratitudine verso il dolore passato sostenerlo. Le società attuali presentano mirabolanti tecnologie che non esistevano pochi anni fa, alcune offrono enormi comodità, è evidente il progresso notevolissimamente in senso materiale. Il progresso che non è avvenuto riguarda le idee, la cultura, l’etica, la capacità di tollerare le diversità e convivere, rispettarsi fra individui.

Neppure l’individuo più antisociale e anaffettivo sarà mai totalmente sordo anche solo ad un barlume emozionale, con rarissime eccezioni – quelle, documentate, di serial killer psicopatici, totalmente incapaci di qualsiasi emozione positiva.  Emozioni positive permeano in realtà gran parte delle giornate degli esseri umani e mai le possiamo dire spente finché un individuo resti cosciente, in grado di relazionarsi con un altro essere umano, anche brevemente con un paio dei propri neuroni specchio. La constatazione dei fattori emozionali è ciò da cui si deve partire per poi argomentare, costantemente, contro la guerra. E’ chiaro come la guerra non funzioni per chi stia dalla parte delle vittime. Siano esse i civili, oppure i militari caduti in battaglia. Certo non funziona per chi rispetti la vita, creda nell’altruismo, ammiri tutti i diversi costruttori di vita pace e salute. Ma il pensiero di questi saggi fu sempre critico. Quindi va detto a favore della lunga lotta che ancora ci aspetta per abolire le guerre, che bisogna partire dalle considerazioni millenarie della preistoria e poi della storia umane, ripercorrere le infinite prove di puntuale circoscritta efficacia, e ammettere che la guerra ha funzionato, ha raggiunto i suoi scopi, o non si capirebbe il punto al quale l’umanità si va confinando a proprio danno oggi.

La guerra finora ha funzionato: è dal suo successo universale che serve partire per farne un’analisi logica, prima che empatica ed etica – o non si porranno mai pensieri parole e azioni adatte ad abolire la guerra in generale, e a concludere con la minor violenza e ingiustizia possibile ogni specifica guerra.

La guerra funziona per la maggior parte di coloro che la dichiarano e che subito dopo la demandano, che comandano altri a combatterla; chi stia esclusivamente dalla parte dei propri interessi personali, o anche dalla parte degli interessi di una sola parte, grande o piccola, del mondo, può, spesso anche se non sempre, sperimentare propri vantaggi durante una guerra – e per alcuni il vantaggio perdura a lungo. Funziona molto in molti casi per certi gruppi di individui, come tutti ben possiamo capire: talmente meglio della pace che alcuni di loro chiamano ogni guerra panacea e igiene del mondo. Funziona in termini materiali immediati, in termini cioè oggi amatissimi di arricchimento personale. Per molti individui la guerra è molto efficace.

Digressione. Efficacia è la capacità di conseguire uno o più obiettivi prefissati. Si può dettagliare il concetto affermando che a volte funziona al di là delle aspettative in termini di obiettivi materiali contingenti di rapporto tra costi/efficacia e/o tra costi/benefici. Basti pensare come esempio di grande efficacia della guerra, ai pochissimi uomini di Pizzarro o di Cortes che sterminarono in poche ore migliaia di Incas e Atzechi, poco dopo la scoperta di Colombo in sud America, nel XVI secolo – il che fu un disastro enorme in termini culturali, di relazioni tra i popoli, e spirituali. Fu un brutale ed immondo disconoscimento del cristianesimo a nome del quale i conquistadores spagnoli approdarono nel nuovo continente iniziando una lunga serie storica di distruzioni che ancora continua. 

Basti pensare anche al genocidio degli ‘indiani’, ovvero dei nativi americani in nord America, nonostante la loro combattiva ed eroica resistenza, dovuta anche alla vendita di armi e cavalli perpetrata dagli avversari stessi, dei nativi americani. La logica mercantile e materiale degli invasori non permise, salvo che a Little Big Horn e in pochissime altre battaglie, ai nativi di prevalere sugli invasori europei, che pure si erano anche arricchiti vendendo loro armi e cavalli. Individui defilati dalle battaglie, trovarono la guerra efficace anche vendendo armi e cavalli – che prima di essere aggrediti dagli emigranti europei i nativi non conoscevano.    

Anche nel caso non si vogliano vedere le più semplici e clamorose prove dell’efficacia – della capacità sul momento di produrre vantaggi ad alcuni propria di molte guerre; anche non volendo ammettere le differenze cognitive ed etiche tra egoismo-individualismo avido neo mercatista ed altruismo neo umanitarista, che non funzioni in questo senso purtroppo non è condivisibile, non lo si può dire. Bisogna accettare in termini secolari, logici e non solo morali, la sfida del dibattito con i guerrafondai. Per quanto attiene al dolore e alla distruzione che ricade sulla testa e sulla pelle delle vittime, militari o civili – e vittime vi saranno sempre anche tra i vincitori, non solo tra i vinti – il prezzo del funzionamento della guerra sta nella sua stessa essenza distruttiva. Essendo la distruzione degli esseri umani, dei loro beni particolari e comuni, fine ma anche mezzo di potere, per alcuni guerrafondai il vantaggio è palese. 

E allora?

La guerra non dovrebbe essere abolita perché non funziona, ma nonostante funzioni. Una consolazione è che forse, finalmente, data la complessità di problemi globali in sommazione, comincia perfino a non funzionare troppo, quasi per nessuno, almeno non come prima. Si vorrà abolirla anche in quanto funzioni sempre meno, anche per i pochi che la comandano e non la combattono – meno anche per coloro che sguazzano sotto il ventre protettivo di chi cavalca la tigre e non può facilmente scendere, una volta che la guerra è cominciata. 

Vari gradi di strapotere ed oligarchie transnazionali si generano, trasmutano e si ricompongono in pace e molto più caoticamente e inaspettatamente in guerra. Se mai, anche per chi detiene i massimi poteri, questo è un motivo su cui riflettere per trovare vie di ritorno e per cessare il fuoco.

Si vorrà abolirla perché è un mezzo ripugnante che comporta sempre da entrambe le parti belligeranti prezzi altissimi in morte, devastazione, dolore fisico e psichico, sete di vendette per generazioni, ed oggi per altri motivi inediti (vedi oltre): tra migrazioni forzate, disabilità e altra morte, la guerra auto mantiene i propri moventi, genera seti inestinguibili di catene di vendette pluridecennali; lo fa perché sa compromettere la dignità, la sopravvivenza e la serena convivenza di interi popoli e allo stesso tempo, oggi che è fredda di atomiche, capace di rivoltarsi indiscriminatamente su tutti sfuggendo di mano fino ad annientare macro ambienti e, forse, perfino l’intero genere umano. Lo fa perseguendo le trasformazioni degli equilibri di potere e la retorica gloria, amante stolta o cieca del potere stesso.

Se lo fa, è opportuno proseguire la riflessione generale (poi tornerà quella particolare Russo-Ucraina), sul perché spesso la devastazione e la vittoria sul nemico a volte producano vantaggi per qualcuno.

E’ impossibile che tutto il male giunga per nuocere, si dice, ed è vero. E’ impossibile, filosoficamente parlando, nei fatti storici spesso in perenne cruciale revisione da parte degli storici: impossibile per ragioni spiegate da Edgar Morin, prima ancora da Ivan Illic, scrittore del principio di contro produttività specifica. Ogni istanza positiva ha per le società umane sempre la sua nemesi, antico concetto greco, e viceversa, ogni istanza negativa, ha le sue nemesi positive. La guerra causa distruzione, morte, mutilati, feriti, emigrazioni, sofferenze protratte, anche per i vincitori, ma non è questo che configura la Nemesi. 

Non si deve eludere quel che è palese nei fatti di tutte le guerre in corso. Chi vince, come chi si ritira invitto, ottiene vantaggi psicologici economici e materiali a volte enormi a prezzo d’altri esseri umani, non a caro prezzo per tutti i soggetti coinvolti. L’effetto collaterale dell’orrore e dello sfinimento dovuto alle devastazioni e ai combattimenti inducono prudenza, timori e nuovi impegni ricostruitivi, nonché spesso diffidenza  verso la prospettiva di ricominciare. 

La magra consolazione a cui ancorarsi è la ‘guerra fredda’? Si potesse imparare una volta per tutte dal passate e dallo svantaggio delle tecnologie potenti, che non dovrebbero mai comandare al posto dell’etica e delle politica. Si son scritti fiumi d’inchiostro sul bene della guerra fredda, lungo periodo senza (quasi) distruzioni atomiche (eccezione l’atollo di Bikini, 5 luglio 1946, Chernobyl 1986, e poco altro). Tuttavia oggi le machine esigono maggior saggezza umana che in passato, e il passato ha già chiarito l’inutilità delle bombe distruttive. Tanto vale allora non eludere due o tre domande, più cruciali di altre, ancora abbastanza attuali e specifiche:

  1. I) le 2 prime bombe atomiche, sganciate dopo la sconfitta della Germania nazista, nel 1945, hanno funzionato? Che scopo hanno raggiunto?
  2. II) funziona la vigliaccata oscena e sistematica di uccidere i civili, donne bambini e vecchi, magari prima violentando e ferendo? Perché funziona? E perché, sempre, questa vigliaccheria caratterizza le guerre, anche quelle contemporanee?

Provo a rispondere.

  1. I) Hanno funzionato, raggiunto lo scopo, le prime due bombe, benché non fossero in realtà affatto necessarie per vincere. Gli USA e gli alleati i primi di agosto 1945 avevano già ampiamente vinto, anche sul Giappone.

Al riguardo, promemoria: 

l’esercito sovietico e quello statunitense si incontrarono il 25/04 e tagliarono in 2 la Germania; Benito Mussolini fu ucciso il 27/04/1945; 

Adolf Hitler si suicidò nel suo bunker mentre era braccato sotto le bombe a Berlino il 30/04, Goebbels il 1° maggio; 

la resa ufficiale della Germania e dunque la fine della seconda guerra mondiale in Europa fu il giorno 07/05/1945; 

i membri del governo tedesco post mortem del Führer furono arrestati il 23/05; 

l’ultima battaglia in Europa fu conclusa tra esercito jugoslavo ed armate croate il 25 maggio; 

l’atto di resa del governo giapponese fu invece il giorno 02/09/1945; il lasso di tempo tra fine guerra in Europa e il disastro atomico è consistente, quindi tocca far un passo indietro e dettagliare il promemoria.

Il presidente USA Harry Truman fu eletto dopo la morte di Roosevelt che avvenne il 12/04/1945, ma il conflitto, rimasto ancora aperto solo nel pacifico già in giugno, era già avviato palesemente verso la sconfitta del Giappone; 

il 12/07 dall’imperatore giapponese fu infatti chiesto all’Unione Sovietica di mediare con gli USA una resa incondizionata del Giappone, e Harry Truman ne fu certamente subito messo a conoscenza; decise di usare la bomba atomica, di cui fino a poche settimane prima non seppe molto, per timore che l’URSS espandesse la propria influenza nel sud est asiatico, e per il fatto vi era estremo interesse, ovvio, a sperimentare/testare sul campo un’invenzione costata circa 2 miliardi di dollari allora, e su trattava ahimè di una eccezionale novità di un prodotto tecno-scientifico. 

Il prodotto era apripista di un nuovo mercato, quello delle armi atomiche. Truman valutò certamente questo ed altro.  Il suo annuncio pubblico, dopo l’esplosione, fu il seguente: 

Il mondo sappia che la prima bomba atomica è stata sganciata su Hiroshima, una base militare. Abbiamo vinto la gara per la scoperta dell’atomica contro i tedeschi. L’abbiamo usata per abbreviare l’agonia della guerra, per risparmiare la vita di migliaia e migliaia di giovani americani, e continueremo a usarla sino alla completa distruzione del potenziale bellico giapponese

Molte menzogne e ad andar bene una mezza verità in queste poche parole. 

La mezza verità sta nel finale e sembra giustificare Nagasaki, 3 giorni dopo Hiroshima, che non era affatto una base militare ma una grande città. Questa è la parte più gravemente falsa dell’annuncio. L’obiettivo di consentire al solo esercito statunitense di occupare il territorio giapponese fu raggiunto; in questo tragico senso bisogna ammettere che la bomba al momento funzionò in molti sensi, benché non fosse affatto necessaria a vincere. 

Ne derivarono molte reazioni sconvolte e di sdegno, tra cui la più nota sembra ancor oggi quella di molti fisici fra i quali Albert Einstein; ma altre reazioni di sconvolto sdegno sono a mio parere ben più significative, meno note ed attese di quelle degli scienziati. Particolarmente significativa fu la dichiarazione in dissenso totale col proprio presidente, dell’allora capo di stato maggiore dell’esercito USA stesso, che giudicò del tutto inutile l’uso di due bombe atomiche ed aggiunse, paradossalmente in linea con un principio di nonviolenza, memorabili parole: 

Non mi fu mai insegnato a fare la guerra in questo modo, e non si possono vincere le guerre sterminando le donne e i bambini.

Questo breve promemoria mostra inequivocabilmente alcune cose ovvie ed altre meno ovvie: 

  1. che il potere e la violenza funzionano, per una parte della metà di due schieramenti belligeranti, in guerra, anche alla sua conclusione avviata;
  2. che lo fanno abitualmente nonostante errate valutazioni del peso distruttivo di azioni belliche, e lo fanno anche indipendentemente dallo scopo di conseguire la vittoria sul nemico: funzionano cioè per altri scopi, molto spesso plasmano violenze latenti e nequizie per il futuro tempo di pace; questo punto come quasi ogni altro rende del tutto inutile accademismo distinguere, oggi, tempi e luoghi di pace da luoghi di guerra, rispetto alla necessità di una riforma radicale del diritto internazionale; 
  3. che funzionano a suon di menzogne e di vigliaccherie, efficaci nel momento in cui vengono perpetrate mezze verità tramite i media più proni al potere, a sempre più caro prezzo per gli innocenti, e forse con maggiore efficacia quanto e quanti più si resti ingenui, attoniti, di fronte alla brutalità lampante della guerra stessa; ritengo si debba ripetere: le guerre funzionano perché funzionano le menzogne; questo sprona a ritenere fondamentale il diritto a conoscere e sviscerare i fatti in dettaglio, non tanto le opinioni, che vanno bene dopo  aver appurato le verità fattuali della cronaca e della storia bellica – e lo stesso vale per i crimini in tempi di pace;    
  4. che il prezzo delle guerre da Hiroshima in poi in maggior misura non lo pagano solo i soldati, essendo da tempo scadute le considerazioni morali a freno del belligerare stesso; 
  5. che il guerreggiare nonostante tutto può dotarsi di nuovo di un’etica, di una normatività la cui base prima poggia sulle sanzioni alle menzogne; e può dotarsi di un particolare riguardo del tutto perduto oggi nei confronti dei civili e dei non belligeranti, siano essi donne bambini o vecchi o disabili; in alternativa, bisogna continuamente dotarsi, ri dotarsi e adattare i tribunali internazionali di criteri per definire il grado di ingiustizia che vecchi e nuovi crimini di guerra continuamente reiterano e reinventano;
  6. che la guerra fredda iniziò con gli stessi motivi determinanti alla decisione di Truman di sganciare, cioè prima, e non dopo la prima bomba atomica. O se si preferisce dirlo in altro modo, che la guerra si è sin da allora trasformata in un freddo calcolo tecno-scientifico, mercantile e di influenze territoriali; il calcolo è sempre in corso, sia in tempi di guerra che di pace. Se è esistita ed esiste – e così è tutt’ora – una qualche guerra fredda o gelo atomico, allora non possiamo aspirare più, al semplice non belligerare come ad un ‘tempo di Pace’. Il tempo cosiddetto di pace dev’essere un tempo di riflessione discussione rieducazione civica, di rifondazione della Global Civic Society (GCS) per smantellare l’arsenale atomico, convertirlo  se mai in un sistema di produzione energetica globale;
  7. Che il tempo di pace sia moralmente e cognitivamente, irrimediabilmente contaminato e contaminante da allora, come contaminanti sono le radiazioni post-esplosioni atomiche. Trattasi oggi in ogni caso per il futuro di una pace coatta e un po’ fasulla, se vogliamo aggiungere a questo punto ai fatti quel che qui si sfoggia, ovvero interpretazioni ed opinioni.

Queste ultime considerazioni, quelle personali ed opinabili, prevalenti ai punti 5-7, costituiscono insieme lo sforzo per proporre a partire, da constatazioni sui fatti e menzogne, l’opinione.

Oggi scopriamo che la guerra fredda non è finita, che è invece tutt’ora in corso in forme complesse, mi costringo ai pensieri elementari e alle correlate domande ingenue. 

Perché? Perché questo tremore ineludibile oggi e questa guerra fredda ‘riscaldata’? Si scivola nella demenza per via dell’ipocrisia?

Ci siamo dimenticati del disgusto per l’atomica di cui, prevedendo il peggio, Gandhi scrisse, prevedendo che … il disgusto del mondo sarebbe durato in fondo pochi anni o decenni?

Là dove fosse messa in gioco la sopravvivenza del genere umano ed una, una sola bomba di distruttività totale, fosse anche per errore il frutto di una escalation, nessuno vincerebbe eccetto un clone amplificato di Adolf Hitler votato identicamente al Fuhrer al proprio suicidio. Solo individui gravemente malati di auto distruttività vincerebbero una guerra atomica, perdendosi in essa. 

Ma anche potenze atomiche molto inferiori a questa garantirebbero indicibili devastazioni e diverse generazioni di dolori atroci nequizie e amarezze. Basti ricordare, tra i fatti, in proposito, per un inquadramento dimensionale di possibili danni futuri, che il disastro di Chernobyl dovuto all’esplosione del reattore nucleare civile durante un’esercitazione, in tempo di pace, il 26/04/1986, 41 anni dopo la fine della seconda guerra mondiale (opposizione di Urano, nel linguaggio astrologico), equivalse ad una bomba atomica 400 volte più potente di quella di Hiroshima. 

  1. II) La vigliaccata ed il crimine di colpire i civili funziona, nel senso che ogni guerra è anche sempre una tortura psicologica, persino per chi solo ascolti le notizie, figuriamoci per chi la combatte, con variabile grado di convinzione e terrore; si ritiene da secoli che niente fiacchi di più l’avversario che l’uccidergli moglie figli e genitori, cioè i civili indifesi.

Per lo stesso motivo lo stupro fu spesso e probabilmente è un ordine ufficioso che alcuni comandanti dettero, e danno, come si trattasse addirittura di un premio, a battaglia vinta o per meglio vincere. Lo stupro è parte di quel tutto volto a distruggere che si ritiene possa funzionare. Queste considerazioni suggeriscono a mio parere che sia in pace che in guerra esistano gli stessi crimini efferati, che vanno considerati tali dal diritto internazionale indipendentemente dalla guerra stessa. Se mai la guerra deve essere considerata un’aggravante, non una attenuante, di crimini contro l’umanità. 

Sono stati scritti molti libri e si fanno innumerevoli dibattiti, tanti da riempire biblioteche e cineteche, sulla differenza tra guerra giusta e ingiusta. 

Anche pronunciare il binomio guerra civile è sarcasmo, a ben vedere. Non esiste alcuna guerra giusta, e tutte le guerre sono e vanno chiamate indegne ed incivili, se si fondano sullo sterminio di donne e bambini, come disse in risposta a Truman il capo di stato USA. Allo stesso modo, la domanda che nel 1993 intitolò un primo articolo di Samuel Huntington – Scontro di civiltà? – dovrebbe riaprire una riflessione elementare, per tentare di chiamare anche le teorie, a maggior coerenza linguistica: le civiltà si incontrano o non sono tali, gli individui i gruppi le culture le nazioni si scontrano a causa della loro inciviltà, e pongono le condizioni per un incontro eventuale solo col cessate il fuoco. 

E se la guerra non funzionasse, se si persistesse nello stallo, varrebbe l’eccezione che persino qualche pacifista si sia espresso a favore della violenza e della guerra in certe situazioni eccezionali.

La scelta di Gandhi di partecipare a scontri armati fu da Gandhi stesso giustificata con l’affermazione ‘ in caso si sia costretti a scegliere tra codardia e violenza, meglio la violenza. La nonviolenza richiede in ogni caso ancor più coraggio del guerreggiare ed è una lotta, ed è anche per questo coraggio che la nonviolenza, egli lo diceva e scriveva di continuo, è infinitamente superiore alla violenza.

E’ necessario constatare più in profondità l’insuccesso temporaneo del pensiero e delle azioni di Gandhi, sia negli ultimi anni della sua vita politica fino alla morte nel 1947 per mano indù dopo l’indipendenza e la separazione dell’India stessa, sia e soprattutto oggi a livello globale.

Poche centinaia di anni di nonviolenza non erano e sono niente nell’economia della storia del genere umano, secondo le affermazioni e azioni di Gandhi.

Va ammesso che la nonviolenza come la violenza commette valutazioni errate dei fatti e conseguenti errori.  Ma né il tempo lungo, né gli errori di valutazione, né il fatto che la nonviolenza che non si identificava affatto con la posizione di Tolstoj – anche rispetto al sermone della montagna che ispirò entrambi – intaccavano la fede. 

Secondo la teoria di Gandhi non si prevedeva affatto lo scadimento delle proprie convinzioni sulla superiorità assoluta della nonviolenza. La suggestione della riflessione va discussa fino a dove è possibile ragionare.

E’ noto che secondo la concezione Gandhiana, solo no violence as a creed è la forza capace di contrastare i peggiori crimini di guerra, mai invece risulterebbe efficace no violence as a policy.

Gandhi scrisse di come il popolo inglese avrebbe potuto contrastare l’avvento dell’Hitlerismo, invitò il popolo indiano a sostenere i britannici in questo.

Fu il parlamento indiano a mettere in assoluta minoranza Gandhi al riguardo. Fu Churchill, coerente nella sua visione e nel suo belligerare, a liberare l’India e Gandhi dall’imbarazzo del fallimento politico della nonviolenza in quel frangente.

La causa del fallimento è spiritualmente o se si preferisce culturalmente lampante: solo Gandhi e pochi altri allora coltivavano la politica della noviolence, as a creed.

Tutti gli altri optavano palesemente per la non violenza del debole, no violence as a polcy – quando non coltivavano, peggio ancora, la non violenza del codardo. Nei confronti di queste forme di nonviolenza prive di fede fu sempre fermamente contrario. Di fatto, è ben evidente anche oggi in Iran che la nonviolenza diventa imbattibile quando diventa un credo, anche perché in questo caso contagia interi popoli.

Oggi, non è facile forzarsi a intravedere negli occhi o nell’inflessione della voce di chi detenga il potere, al di là delle retoriche sulla pace a volte sbandierate, il ben che minimo impulso di empatia profonda per la teoria e pratica della no violence as a creed, della nonviolenza come convinzione, fede incrollabile.

Ed è lampante che se c’è un lascito nel pensiero e nelle azioni, in tutta la vita del Mahatma, è proprio questo che andrebbe rivitalizzato, esattamente questo, che singoli individui gruppi e popoli in ogni luogo dovrebbero risolversi a praticare con la massima determinazione rigore e spirito di sacrificio.

Il genere umano oggi è lontano da questo con rare e clamorose eccezioni, e pare le questioni siano impraticabili perché si dovrebbe tornare ad una verità condivisa lontana nel conflitto tra imperi: USA Europa Occidente da un lato, Russia, Iran, Cina dall’altro; l’unica tenue speranza deriva dalla rivisitazione del pensiero per fare proposte che rompano le catene della violenza intrinseche al tempo di Pace, non solo e nemmeno tanto a quello di guerra. 

Un diritto internazionale chiede di essere rivisto per mezzo di nuovi compromessi in quanto non è pensabile che ve ne sia uno accettabile per le dittature e un altro differente, buono per le democrazie, posto che la gara tra quale impero sia più ipocrita è dura.

La prima se non la più importante sintesi della visione gandhiana – arte della pratica creativa della nonviolenza – sta a mio parere nella triplette di rispondenze che egli definisce nella sua cosiddetta teoria:

 … ai bambini bisognerebbe insegnare che l’odio si sconfigge con l’amore, la menzogna si sconfigge con la verità, la violenza si sconfigge con la sofferenza.

Una traduzione più laica e moderata di questa frase potrebbe sostituire verità con sincerità e sofferenza con empatia, ma ho qualche dubbio che questo non distorcerebbe lievemente il pensiero di Gandhi.

Va inoltre ricordato che in più circostanze nel corso della propria vita Gandhi in prima persona prese parte a conflitti armati.

La convinzione detrattiva di alcuni al riguardo è paradigmatica, ed è rara, perché la nonviolenza, è lampante, costa fatica e dolore, e non è da tutti, anzi pochi o nessuno la pratica, guardando gli ultimi 10.000 anni di storie umane. 

Le sue spiegazioni riguardo alla partecipazione a guerre, o meglio la sua visione, che mutò in seguito nella sua complessità, va meditata proprio per rintracciare proposte di riforme radicali del diritto internazionale. Oriente e occidente non sarebbero infatti risparmiati da un diritto internazionale capace di imparzialità e di sincerità nella rivisitazione di fatti bellici recenti, dall’Afghanistan all’Iraq al Kosovo, all’Ucraina dalla sua nascita come Stato indipendente ad oggi, se non riformandosi radicalmente.

Un secondo caso eclatante di presa di posizione eccezionale a favore della guerra da parte di pacifisti, dopo quello di Gandhi, è quello di Bertrand Russell. 

Persino lui, pacifista appassionatamente convinto ed anche un pragmatico pensatore, dotato di grande raziocinio e sens of humour, che finì in carcere in occasione della prima guerra mondiale – guerra alla quale fu fermamente contrario – si espresse, eccezionalmente, a favore di una guerra contro Hitler, in linea quindi con il proprio Paese e con la linea politica di Winston Churchill.

Churchill come noto promise ‘lacrime e sangue’ al popolo britannico sin dall’inizio della seconda guerra mondiale; e alla conclusione delle lacrime e del sangue nel 1945 disse “Victory, victory, because any victory there are no survival”.

Ci si può chiedere se fu giusto combattere contro la follia nazista e se si vuole si può girare oggi la domanda a tutti i pacifisti assoluti, così come per contrappeso ai più appassionati guerrafondai, in particolare a quelli con simpatie neo-naziste, come alcuni Ucraini. 

La risposta potrebbe essere ‘No!’ in entrambi i casi, ma per motivi opposti. 

No, perché non è mai giusto andare in guerra, semplicemente può essere assolutamente necessario per sopravvivere, ma comunque ingiusto, per chi voglia chiamare le cose col loro nome; 

e No, perché i guerrafondai preferirebbero non aver a che fare con soggetti pensanti, in situazioni di lampante ferocia distruttiva quali il nazismo e il neonazismo. 

I guerrafondai convinti preferirebbero non esser mai riconosciuti, perché chi inneggi alla guerra non potrebbe che farlo per motivazioni equivalenti in gravità a quelle dei peggiori neo-nazisti. 

E’ ora di smetterla di pensare che i soli nazisti siano gli unici ideologi da combattere, mentre le altre ragioni violente siano ‘diverse’. E’ assai improbabile che le ragioni diverse siano migliori, e questo andrebbe provato nei fatti a maggior ragione se si volesse rispettare un approccio pragmatico e concreto che proprio Bertrand Russell è riuscito a trasmettere a generazioni di occidentali e non solo.

Io credo che per motivi anche odierni e attuali – insieme antichi e nuovissimi sia urgente dismettere un linguaggio intrinsecamente ipocrita prima di dialogare. Mi sforzo di richiamare le cose con il nome che hanno, i valori e i disvalori col nome che si meritano.

Combattere Hitler fu necessario, indispensabile, provvidenziale per l’occidente fu batterlo, ma combatterlo nemmeno allora fu ‘giusto’. La triste necessità di violenza non è giusta per il fatto che è indispensabile. Non fu giusto per nulla uccidere soldati tedeschi, civili tedeschi e giapponesi, perché mai giusto è far la guerra e mai dovrà esser ritenuto tale nel linguaggio del cambiamento. 

La dimensione bellica esclude la giustizia, e combattere un aggressore è mezzo per ripristinare un futuro di giustizia e di pace, perché se è vero che non c’è pace senza giustizia è altrettanto vero che non c’è alcuna giustizia senza pace. 

La guerra è una desolata terra di nessuno dove la giustizia è bandita e questo va interiorizzato nel linguaggio anche e innanzitutto in coloro che coraggiosamente combattono per difendersi dalle aggressioni. 

Sono per l’abolizione definitiva non solo della guerra ma anche del termine guerra giusta. Quel che ho costruito per iscritto fin qui, impone di soffermarci a chiarire la scoperta fatta – o meglio l’attualizzazione prima che etica, logica e linguistica, delle implicazioni del termine guerra e derivati in senso etico-filosofico.

Si può e si deve per coerenza alla logica di un linguaggio chiaro, accettare l’idea che non inevitabilmente ogni azioni umana sia ‘giusta o ingiusta’; esistono tipi di azioni che non sono ascrivibili, almeno non prevalentemente, all’etica. Se mai, ad esempio in un’ottica antica ma non trascurabile, quella della filosofia della pratica ( cfr. Benedetto Croce, Antonio Gramsci, altri), l’ottica prima e pre-etica delle azioni umane è economica, di necessità, di utilità, individualistica, se si vuole ampliare pericolosamente il concetto sporcandolo, egoistica. Si potrebbe rileggere un paio di volumi di Croce e constatare che dire utile, economico, è sufficiente. Volgarizzando questa breve discussione si può tentare di dire altro. Si può scriver, per chiarire filosoficamente, che: 

respirare, dormire bere e mangiare, urinare e defecare, non sono azioni giuste o sbagliate di per sé: in quanto atti biologici necessari sono manifestazioni dell’essere vivi, del nostro essere identici al mondo animale vivente, delle necessità proprie della vita individuale.

Non avere contezza di queste banalità basiche significa istupidirsi di fronte a presunti iper oggetti e votarsi al diventare culturalmente zombie. 

Similmente, esser biondi con gli occhi verdi o azzurri, olivastri o neri di carnagione, non ha a che vedere con la giustizia. Queste differenze fenotipiche che balzano agli occhi e che in termini di genetica sono del tutto superficiali – se si preferisce, discrete variazioni fenotipiche – hanno portato ad ingiustizie e a stupide riflessioni pseudoscientifiche in base a pessime filosofie, così come a preoccupazioni eccessive sull’inutilità di raggruppare i viventi in base a somiglianze; distinguere le razze in base alla superficie del soma è utile, cioè economico, ma non ha di per sé con tutta evidenza alcuna relazione logica con il giusto e l’ingiusto.

Non ci si può illudere che nella realtà e nella vita – che elude per complessità e variabilità biologica le più accurate classificazioni e categorizzazioni umane, costringendosi a rinnovarle e correggerle per ragioni pratiche col tempo, certi discorsi, fossero anche quelle che cercano di orientare una descrizione esaustiva e sistematica, filosofica dell’uomo nel suo complesso e misterioso nel suo stare al mondo – ogni azione umana anche minima, ogni respiro e battito di ciglia, non si trovi collocato in un contesto contiguo ad implicazioni multiple (percettivo-estetiche, economico-politiche, etiche, psicodinamiche, altre). 

Se le azioni ad alta implicazione etica – sono oggetto della presente digressione, considero qualche banalissimo e discutibile esempio solo per. cogliere la direzione del pensiero che sto cercando di muovere. Dicevo respirare, etc. , esser biondi etc. 

Ancora, azioni ovvero forme del nostro modo di essere: coltivare un campo di grano, raccoglier acqua da un pozzo, berne un sorso, riposarsi; dipingere, impastare argilla, passeggiar nel fango, danzare sotto la pioggia, suonare uno strumento; inventare il denaro, farne uso quotidiano, concludere un accordo commerciale, non sono di per sé modi d’esser giusti o ingiusti: le azioni pertinenti all’estetica e all’economia non dovrebbero che contenere, per concessione, un grado prossimo allo zero di implicazione etica e di giustizia/iniquità. Giustizia e iniquità dipendono dal contesto, dal dove come quando e perché si compiano certe azioni. Prossimo allo zero qui accoglie per via di compromesso la teoria della logica fuzzy e la convinzione che una frazione minima dello zero sia molto diverso da zero, volendo essere esaustivi e in connessione con la propria coscienza umana e vitale.

Allora, ogni situazione singola e specifica attiene non alle classificazioni o alle categorie, aristoteliche o altre, fisiche  o metafisiche, ma se mai alla fornesi aristotelica, per cui di volta in volta servirà con la propria coscienza esaminare i fatti e il loro contesto, per sapere se un’azione è passibile di crimine secondo il diritto: oggi a tale complessità siamo diretti, per cui:

bere un sorso d’acqua da una bottiglia di plastica è meno etico che berla direttamente dalla fonte; 

disegnare una caricatura può divertire un amico di larghe vedute, oppure offendere tremendamente qualcuno di tutt’altra cultura e convinzione, e produrre disastrose violenze; 

suonare il sax in piena notte in un condominio abitato non è molto giusto per il vicino di appartamento mentre    è rispettoso del proprio vicino in una stanza perfettamente insonorizzata, o invitando il proprio vicino in cassa propria ad ascoltare, se lo desidera; 

altri mille esempi si potrebbero fare per confermare il principio ecologista ante litteram di Albert Schweitzer, secondo cui ogni azione umana va confrontata con le sue prospettive etiche, e con quelle ontologiche di vita, cioè di volontà che vuol vivere.

Per tornare alla questione se sia giusta o no, ho già scritto, no, la drammatica necessità per quanto appaia ineluttabile, di muovere guerre difensive, essa non dovrebbe contenere un grado di giustizia troppo lontana dallo zero, perché lontana dallo zero non è: sarà più giusto invece, ammettere che si tratta comunque di una scelta necessaria e gravemente ingiusta, d’un grado di ingiustizia prossimo a 100 in una scala fuzzy da 0 a 100. 

Necessaria perché il frangente in cui si è costretti a scegliere fra poche alternative non consente in nessun caso poco più del grado zero di giustizia, tutt’al più consente invece, solo, questo è il dramma, una grave ingiustizia, una violenza distruttiva minore.

Il dibattito poi dovrebbe vertere sulla punibilità e sulla misura di sanzione, di tale ingiustizia, indipendentemente da vincitori e vinti.

Ne segue che alcune azioni, a prescindere dalla punibilità, non vadano comunque mai ascritte al giusto, ma sempre all’ingiusto, o tutt’al più ad una neutralità, qualora vi sia, peraltro per niente facile da stabilire e sempre post hoc, in un tribunale di giusti che si sia costituito come imparziale.

Sulla base di un diverso parlar chiaro, di una cessazione del ricorso al veto ed all’uso di certi binomi, dismettendo il voto dei voti all’Onu, dovrebbe essere radicalmente rifondata l’Onu, abolendo il diritto di veto che la paralizza e la rende del tutto impotente, e rifondare la terminologia del diritto internazionale, costruendo le dovute distinzioni anche rispetto alle nuove questioni che rendono difficile descrivere che tipo di guerra sia quella che uno Stato democratico conduce contro il terrorismo. 

Quali modi e limiti si debbano rispettare pur ritenendo opportuno contrastare il terrorismo. 

Questa considerazione è senz’altro fortemente osteggiata dal buon senso giurisprudenziale ordinario ma, in quanto il mondo si va trasformando mostruosamente, in quanto valida come il parlar chiaro in senso etico, credo semplifichi le cose un po’ come l’uovo di Colombo, proporre:

  1. di bandire ogni binomio: aggressione militare o guerra giusta, o giustificata – si usi il binomio aggressione necessaria per … (esplicitare il motivo); analogamente, non si usi il termine guerra difensiva – ma guerra reattiva ad aggressione, essendo impossibile una reale distinzione sul campo tra uso difensivo ed uso aggressivo di armi, il cui mercanteggio andrebbe sanzionato da qualsiasi parte provenga;
  2. non usare l’aggettivo ‘civile’ in una guerra interna a un singolo stato: si tratta di guerra o guerriglia politica incivile, scontro armato tra civili violenti e/o tra criminali – massimamente incivile ovvero regressiva del diritto statale interno, indica ad esempio il crimine che può sfociare in strage quello che in tempo di pace, negli USA, è descritta come una grave piaga sociale.
  3. parlare chiaro: di violenza e di triste necessità ingiusta, reattiva a iniquità maggiore, anche in riferimento alla forza qualora esercitata dal diritto internazionale terminologicamente riformato: di violenza necessaria politicamente condivisa benché ingiusta. Se si ritiene, giustificata, entro certe strette misure, dal voto di qualcuno, ma non giusta.

Bisognerebbe preservare, anche nel caso di una riformulazione delle regole del diritto, sia internazionale che dello jus in bello, criteri di identificazione di fatti che costituiscano fuor di opinione violazioni dei diritti degli individui e delle popolazioni coinvolte. 

Anche una guerra cosiddetta difensiva è comunque un crimine, e per questo motivo tregue, armistizi, accordi di pace, devono essere facilitati in deroga a sanzioni e a risposte economiche, in caso di violazioni che vanno sempre ascritte nei fatti con vere prove, qualora provate ad entrambe le parti belligeranti, vincitori e perdenti. Questo aprirebbe al baratto, come via breve e creativa a trattative urgenti subito dopo un cessate il fuoco. Criteri di facilitazione eccezionali dovrebbero prescindere anche del tutto dal vantaggio economico, essendo in campo l’obiettivo non di ottenere compensazioni economiche, ma innanzitutto etiche.

Ritengo inoltre che in ogni caso l’uso del binomio ‘guerra giusta’, come di ‘guerra umanitaria’ sia disgustosamente ipocrita, una lampante contraddizione in termini al di là della possibilità di dirimere i fatti dalle mere opinioni nelle singole circostanze quotidiane del conflitto. La contraddizione è percepita anche nel dibattito internazionale avviatosi dal 2001 ovvero con la crisi del diritto internazionale stesso. Lo dimostrano bene affermazioni come quelle di Kofi Hannan citato dal Report Responsability to protect.

Il diritto parla anche di popoli bistrattati per secoli dalla colonizzazione occidentale alla quale oggi si sta sostituendo una altrettanto ipocrita e razzista colonizzazione cinese ed una belligeranza russa – ed in questo quel che Gino Strada dice è lungimirante, Egli trovava, con capacità di dialogo, i fondamentali. Io posso solo sperare di arrivare vagamente vicino ad un qualche dialogo utile. Ma tra i fondamentali è implicito nell’etica della nonviolenza che non siano tenuti in conto oggi tutti i fondamenti del diritto internazionale stesso, perché quello purtroppo non ha funzionato, non sta funzionando in Ucraina, è invece proprio per il fondamentale fallimento dell’Onu, del diritto umanitario, che risulta urgente riformarlo. 

Le parole e le tradizioni e traduzioni di questo diritto generano dibattiti e scarsa convergenza sull’uso dei termini, perché si è troppo poco sinceri nel chiamare la violenza e le guerre con il loro nome: distruzioni, non mestieri, non arti, in quanto tali di per sé meritevoli di sanzioni da qualsiasi parte provengano, non da quella che conviene di volta in volta, il contrario esatto di qualsiasi    – as a creed

Ma se per via di parole scritte è possibile aspirare a cessate il fuoco, tregue, trattative, armistizi, forse, un giorno non troppo lontano, non troppo carico di distruzione, firme di accordi di tregua, insieme a firme di condivisione degli stessi crimini, saranno un giorno declinati in … tempi e luoghi di ‘guerra pace’, questa sarà la prima vittoria globale.

COLLOCAZIONE: tratto da un libro inedito, prossimo a stampa in n. limitato di copie, intitolato “Arti contro le guerre”

Franco

Testa di don Chisciotte

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