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L’ALTRO LATO della ‘RONDANINI’

Riflessione sulle arti visive, Michelangelo e neuroestetica

Atul Gawande ‘Con cura. Diario di un medico deciso a fare meglio’ ultimo capitolo, pag.237 – Einaudi 2008

“Il mio quarto consiglio è ‘scrivete qualcosa’. … Non fa differenza se scrivete per un blog, per una rivista di settore, o una poesia per un gruppo di lettura. … Non c’è bisogno che scriviate qualcosa di perfetto. Serve solo per aggiungere qualche piccola osservazione sul vostro mondo. Ma non dovete sottovalutare l’effetto del vostro contributo, per quanto modesto. … Né va sottovalutata l’importanza in sé dell’atto di scrivere. Prima di diventare un medico non scrivevo, ma a quel punto ho scoperto che avevo bisogno di farlo. Nella sua complessità, la medicina è una fatica più fisica che intellettuale. E poiché è anche un’attività al dettaglio, dal momento che i medici prestano le loro cure a una persona per volta, può stritolarvi. Si può perdere la visione d’insieme dei propri obiettivi. Scrivere consente di tornare su un problema e di riflettere. Anche la più rabbiosa tirata impone a chi scrive una qualche pensosità. E soprattutto, offrendo la vostra riflessione a un pubblico, può diventare parte di un mondo più vasto…”

1.

Il mio omaggio all’ultima scultura di Michelangelo.
Restaurare e riflettere continuamente sull’arte

I confini dell’arte visiva mi sembrano oggi mal definiti. Questo ne ostacola la comprensione, e la cosa complica la vita a me, ma forse anche al pubblico, ai curatori di mostre, persino agli esperti di neuro estetica, nuova branca scientifica della neurologia che indaga gli aspetti mentali delle percezioni estetiche.
Semplificare al riguardo non è scontato, e come sempre, per capire, si può semplificare il più possibile, ma non di più. (Albert Einstein). Si tratta piuttosto di non complicare troppo. Per non complicare troppo, di solito parto dalle definizioni, ricordando un vecchio motto un po’ polemico attribuito a Voltaire ( se volete parlare con me, definite i vostri termini), che mi fa da monito a tutti quelli che si assumono la responsabilità di affrontare per iscritto pubblicamente questioni di fine intelletto.

La definizione di Franz Boas: arte è l’uso di materiali per esprimere percezioni coscienti, è una straordinaria semplificazione chiarificatrice, cui mi rifaccio spesso. In quel per esprimere sta tutto l’indefinito e indefinibile che l’arte continua a trattenere attraverso secoli e culture. Ciascuno esprime con l’arte le proprie percezioni coscienti, anche nel caso partecipi a lavori orchestrali e collettivi, oggi diffusi per mirabolanti vie tecnologiche. La realizzazione di grandi sculture, ad esempio, è spesso di necessità il risultato della collaborazione fra creativi capaci di intuizioni e innovazioni formali, con uno o molti artigiani e tecnici. Anche per un evento espositivo relativamente semplice, in effetti, quel che si esprime è di fatto il risultato di un gioco di squadra. E come per ogni altro lavoro, una testa sola non può contenere tutta la saggezza (proverbio Masai).

In ogni caso, due elementi, innovazione formale ed eccellenza tecnica, definivano secondo Boas anche per i primitivi l’arte, distinguendola dal semplice artigianato; quelle di Boas mi sembrano considerazioni illuminanti, a maggior ragione di fronte alle stranezze dell’arte contemporanea, in cui si dà comprensibilmente molta importanza al primo termine: è infatti molto difficile in arte non rifare il già fatto e scoprire o inventare anche piccole innovazioni formali. Quel che oggi si aggiunge (ma non è forse obbligatorio) alla definizione è che l’arte (l’arte pura) si esercita al fuori di scopi applicativi. In altre parole è un lusso, oltre che per alcuni un bisogno insopprimibile. Ma gli scopi applicativi stanno ovunque, ed esercitare mente e manualità aiutano.

Per semplificare, vorrei proseguire dicendo che, se una scultura (a tutto tondo) è collocata in modo da non poterle girare intorno, soluzioni di compromesso espositivo si impongono per motivi che stanno sotto gli occhi di tutti. Per questo ho collocato la scultura più grande quasi al centro della stanza, e le nicchie hanno accolto sculture piccole, una delle quali su piatto girevole. Avendo realizzato mostre di scultura varie volte, mi son trovato sempre ad ovvi adattamenti e compromessi. Questa considerazione, mutatis mutandis, secondo me vale per tutta l’arte visiva presente e passata, sia che si guardino quadri/sculture in TV, al PC, sul cellulare di ultima generazione, comodamente seduti al cinema, o quadri/sculture in piedi di fronte all’opera reale, magari dentro una torre, con tutto il contesto di land art circostante.

La percezione cambia, a seconda del contesto, e di come lo spettatore sia invitato a muoversi attraverso un evento espositivo, sia questo reale o virtuale. La definizione di Boas, che era riferita all’arte dei primitivi, vale anche se pensiamo a novità virtuali, quanto meno se oggetto dell’attenzione è il problema percettivo. Le percezioni restano tali indipendentemente dalla fonte, fisica o virtuale, delle percezioni stesse.

C’è da chiedersi cosa e quanto sia virtuale, se diamo per scontato che un reale spazio fisico (ad esempio una scultura, o una torre) non abbia bisogno di spiegazioni. Ma anche la pagina su cui scrivo/che state leggendo, spazio meta-temporale, da sola può costituire un evento espositivo di per sé: pubblicata on line, offre i propri aspetti percettivi, a prescindere dal contenuto espresso in parole nel testo, che chi vuole può del tutto tralasciare, e che a qualcuno capiterà di fraintendere. La sola scelta del carattere arial o impact invece di times new roman, e le dimensioni ad esempio, modificano l’impatto visivo e la leggibilità di qualsiasi testo.
Lo spazio cognitivo va globalmente trasformandosi negli anni in ciascuno di noi, a suon d’ immagini sui cellulari e di continuo, dall’oggi al domani: le informazioni sono sempre più numerose fluide e a rischio di ingestibilità, visive e nello stesso tempo sempre più invariabilmente, in un qualche modo, cariche di parole scritte: grandi o piccole didascalie, rimandi, fino a persistenti possibilità di ipertesti in ogni angolo di pc. Le didascalie esistono da molto tempo, le possibilità sempre nuove di contestualizzazioni veloci facili e superficiali meno. Ci assediano e rimbecilliscono. Le leggiamo e non le leggiamo. Allo stesso modo, guardiamo e non vediamo, che l’arte visiva è sotto gli occhi e in gran parte si capisce. E si può capire a volte a prescindere o addirittura nonostante le didascalie e i discorsi che l’accompagnano.

Le didascalie, proposizioni esplicative o suggestive a corollario di immagini, sono dovunque: un assedio. I motivi di questo assedio sono ovvi. Le parole sono importanti perché possono molto condizionare la mente. Nel caso dell’arte condizioneranno le percezioni / le attività cognitive associate. E a causa delle parole, difficilmente oggi si è in condizioni di cogliere un ‘peso netto’, la pura capacità dell’immagine sola, senza titolo, non commentata, di veicolare emozioni, ragionamenti, messaggi. E’ inoltre evidente che il contesto circostante qualsiasi opera modifica la percezione; e che le immagini, di per sé, (quindi l’arte visiva tutta, di per sé) non possiedano una capacità di verità; cosa non di poco conto, proprio l’arte (visiva e non), può potentemente evocare in uno o in molti qualche profonda verità. Ma è al fondo sempre più incapace di funzionare oggi come verifica di qualsiasi fatto, senza contestualizzazione e, in mancanza di contestualizzazione operativa, senza didascalìa. La tecnologia è troppo potente e sibillina, la fluidità troppo elevata, per non ammetterlo. Siamo spesso allontanati da questa consapevolezza che le immagini di per sé siano intrinsecamente incapaci di verità, e che – nello stesso tempo, a compenso di questa impossibilità/incapacità – solo l’arte, la poesia, forse possano evocarla in noi.
Ognuno di noi è frequentemente assediato da una tara truccata – la cosiddetta ‘cultura marmellata’ (cfr. Giovanni Jervis, Contro il sentito dire), da cui si è invischiati, e invito, per paradossale gioco di parole invitati a ‘guardar’ bene, se serve, a guardarsi, difendersi, da certe spiegazioni. Quasi nessuna immagine oggi ci è proposto senza contesto convenzionale, senza didascalia, senza messaggino allegato. Spesso si aggiungono spiegazioni, suggestioni, suggerimenti, interi linguaggi, totalmente incomprensibili o inconsistenti. Tanto vale scrivere di questo assedio della scrittura all’arte, perché, malgrado tutto, che le parole assedino le immagini, non significa che qualche parola non chiarisca e aiuti. Dipende quali. Speriamo.

Parole impoetiche non evocano, corrispondono alla terrestre verità di fatti quando ben dette, con tutta la difficoltà e fragilità di accurate proposizioni e misurazioni, storiche e scientifiche. Non mi riferisco ovviamente a verità rivelate o di fede, ma a verità singole, spicciole, circostanziabili, all’idea di verità come (cfr. Alfred Tarski, Karl Popper) corrispondenza tra quei fatti e quelle specifiche proposizioni che li descrivono. Resto persuaso che per via della bellezza e ancor più dell’amore la comprensione sia facilitata, la fatica di comprendere alleviata, i conflitti a volte risolti. A volte no, per motivi ovvi (cfr Albert Schweitzer, in note bibliografiche).

Racconto ora pochi fatti a commento della principale scultura esposta nelle mie ultime 2 mostre, scultura intitolata Other side of Rondanini. Chi volesse leggere poco, può seguire le frasi in corpo grafico grande, e capirà se la cosa può interessarlo o no.

Nel luglio 2009 realizzai 3 bozzetti scultorei in terracotta, uno diverso dall’altro, ‘appunti’ o meglio dapprima ‘imitazioni intuitive’ poi ‘riflessioni’ sulla Pietà Rondanini di Michelangelo Buonarroti.
Perché? Perché la ritengo una delle più straordinarie opere d’arte, contemporanea e di tutti i tempi. Sono completamente d’accordo con lo scultore Henry Moore, secondo il quale la Rondanini è, proprio per la compresenza di parti lavorate in modo differente – per un’incostanza esplicita, legata verosimilmente alla maturazione in Michelangelo di una nuova visione dell’umanità, e al suo percorso di disillusione sull’arte – la più commovente di tutte le sculture ….
Come si evince anche da una lettura di Wikipedia e da qualche approfondimento, la Pietà Rondanini è una scultura marmorea (h. 195 cm) incompiuta, scolpita da Michelangelo Buonarroti in almeno 2 distinti periodi di tempo: nel 1552-1553 una prima versione, di necessità in parte perdutasi, fu poi rilavorata dall’artista per la via del levare, cioè scavando dentro lo stesso blocco di marmo, con rinnovato stile e probabilmente diversa intenzione di significato formale, probabilmente dal 1555 circa al 1564;; oggi essa è conservata nel Castello Sforzesco a Milano. Si tratta dell’ultima opera dell’autore che, secondo alcune fonti, vi lavorò fino a pochi giorni prima di morire. Le Pietà di Michelangelo sono almeno 3, la vaticana, la Bandini e la Rondanini. Una quarta Pietà, quella di Palestrina è ritenuta un’attribuzione erronea, o quanto meno molto discussa…. Le incertezze storiche esistono sempre, ma anche le certezze; in passato la Rondanini stessa fu ritenuta un falso; a tutt’oggi, alcuni studiosi collocano in tempi diversi di realizzazione la Bandini e la Rondanini, ma ai più sembra indubitabile che la Rondanini sia l’ultima. Essa costituisce l’ultimo esempio di ‘non finito’ michelangiolesco, per molti versi il testamento e l’apice del percorso del grande artista, anche se non è dato sapere che giudizio egli desse della propria opera, e anche se almeno un sonetto rinvia ad una drammatica rivisitazione dell’insufficienza dell’arte. Nella mia curiosità di modesto modellatore d’argilla ho desiderato studiare a lungo questa scultura. Si legge (sempre da wikipedia) che … la composizione in verticale fu altamente innovativa e dimostrò le capacità inventive dell’artista ormai ultraottantenne [6]. Nel gruppo scultoreo si alternano parti condotte a termine, prevalentemente inferiori, in uno stile che Henry Moore ha definito anatomico-rinascimentali, riferibili alla prima stesura; e parti postero-superiori non finite, dette da Moore espressionistico-gotiche, riferibili alla seconda versione propriamente incompiuta ovvero sbozzata, mediante l’uso di grandi scalpelli a gradina, trattando il marmo nel modo magistrale considerato da Rudolf Wittkower l’innovazione tecnica più rivoluzionaria all’epoca del Buonarroti. La Rondanini presenta un’incostanza esplicita ben visibile, che spiega la sua genesi bi-fasica. L’incompiuto michelangiolesco è di fatto uno dei registri stilistici ricorrenti, che chiunque si eserciti brevemente ad adocchiare le sculture del Buonarroti riconoscerà facilmente, tanto spesso e potentemente gli capiterà di trovarselo sotto gli occhi. Per questo fatico a comprendere – ad accettare – alcuni giudizi neuroestetici che il neurologo Semyr Zechi dà sul non finito, con intento scientifico. Di capire, esaminare, mai finito.
L’opera mi colpì sin dalle prime riproduzioni fotografiche, che vidi da ragazzo, e che, indirettamente (con poca qualità di immagine: poca e pessima ma sufficiente a colpirmi) su carta patinata da settimanale, me la fecero conoscere. Ciò avvenne molti anni prima che riuscissi ( a 46 anni, nel 2008) ad apprezzarla come si dice ‘dal vivo’, cioè stando di fronte alla scultura reale, senza troppi turisti culturali intorno. Accadde nel 2008 che il guardiano del museo del Castello mi lasciasse entrare in orario di chiusura, impietosito del ritardo affannato di un visitatore ‘venuto dal Friuli’. Essere di fronte ad una scultura reale è di gran lunga più importante che aver di fronte un quadro reale, per capirla. Pur potendosi collocare in modi problematici, dentro a nicchie o anfratti, ogni scultura ha infatti non solo un fronte, ma un retro e almeno 2 altri lati, cioè altre prospettive visuali che chiedono d’esser viste per comprendere. Fatto molto semplice, problemi percettivi e cognitivi per niente semplici.
La prima visita alla statua di Michelangelo, che feci a circa 7-8 anni, dopo il primo impatto sulla foto in un settimanale: allora guardai senza vedere e senza capire niente della bellezza e profondità che la caratterizza. Da bambino qual ero, vidi schiene di ‘alti’ turisti giapponesi intenti a fotografare spasmodicamente un ombra biancastra, e il viso di mia madre che mia aveva accompagnata estasiata, ma non riuscii che a intravedere tra qualche bagliore e molte ombre, per attimi, alcune parti della porzione superiore e del retro della scultura. (Questo episodio è un buon paradigma di quel che secondo me accade di frequente anche oggi). Rimasi abbastanza infastidito dall’agitazione confusa di tanta gente intorno a un marmo, e mi convinsi che, in ogni caso, una scultura non meritava quel tipo di trattamento, quella fruizione frammentaria, fuggevole e frenetica. E allora non compresi che esisteva una possibilità completamente diversa di guardare una scultura, quella straordinaria scultura come ogni altra, nè che questa possibilità alla mia portata era indispensabile a capirne il valore: il beneficio che deriva da una contemplazione adeguata di forme manufatte è sottovalutato, come numerose altre manualità e cognitività umane. Apprezzare una scultura dal vivo è altrettanto, se non più importante, che vedere dal vivo un quadro. Le riproduzioni fotografiche dicono moltissimo, e oggi si debbono doverosamente aggiungere alcune considerazioni sulla iper-riproducibilità tecnica delle immagini d’arte, forme scultoree incluse. Ma non è lo stesso.

Nei mesi successivi ai bozzetti, mai esposti (erano esercizi meditativi preparatori), impostai la sbozzatura e la statica di una scultura di dimensioni medie per interni da un blocco di argilla di circa 180 kg, da modellare o come si dice, per la via di porre.

A differenza del marmo, e di altri mestieri artigiani, inclusa la chirurgia, l’argilla consente innumerevoli ripensamenti. Che la Rondanini consista in uno dei ripensamenti su marmo del Michelangelo, verso gli ottantenni, è un motivo in più per offrire allo scultore un umile omaggio alla sua grandezza. Per il resto, l’argilla ha poco a che vedere con la via del levare, come procedimento. Tutti i lavori di Michelangelo in argilla erano bozzetti preparatori. E il risultato finale di una scultura in terra può essere simile a quello del marmo, ma mai identico, mentre l’esperienza è radicalmente diversa. Modellare l’argilla, cioè liberamente porre e levare, è decisamente, indubbiamente più facile che scolpire la pietra, anche oggi che esistono trapani a supporto della necessità di produrre una forza fisica considerevole per scalfire il marmo. Dal punto di vista tecnico il dopo modellazione offre qualche svantaggio: per sculture di dimensioni non minime, le fasi successive alla sbozzatura e alla modellazione iniziale, creativa e libera, va minimizzata. Disegni e bozzetti preparatori a parte, le fasi di realizzazione di una scultura in terracotta sono:

  1. costruzione e stabilizzazione del blocco di creta,
  2. modellazione,
  3. inizio dell’essiccazione o fase di consolidamento,
  4. fase di svuotatura,
  5. fase di completamento o finale dell’essiccazione,
  6. trasporto in forno della scultura completamente priva d’acqua,
  7. cottura,
  8. recupero dal forno,
  9. restauro e patinatura eventuali.

La tecnologia consente di realizzare copie fedelissime di oggetti tridimensionali in qualsiasi materiale, anche se gli esiti hanno effetti complessivi a volte inquietanti. Inoltre il fare scultura ‘a mano’ può essere compreso meglio neurologicamente grazie alle tecnologie informatiche, e forse questoconsentirà sia di conservare copie di grandi del passato, sia di comprendere cosa accada al cervello e alla mano di uno scultore che insegue un’idea. La questione mi interessa, perché dubito che chi fa arte sia sempre consapevole di come affronta e risolve difficoltà. Quel che si ha in testa è più importante della manualità in senso stretto.

Nell’ autunno 2010 ero alla fase 2, iniziale, l’unica in cui la creatività sia necessaria, e non procedevo; lasciai il blocco sbozzato, sigillato in sacchi di cellophane alcuni mesi, senza andar oltre la fase ‘embrionale’ della sbozzatura, per vari motivi contingenti e altri che non so spiegare.
Coi primi di novembre 2010, un’esondazione mi costrinse a spostare d’urgenza creta, tele, carte e attrezzi del mestiere dalla liscivaia a piano terra dove lavoro – ottimo atelier per modellare le terre crude e patinare quelle cotte, ma molto vicino al fiume. Eccezionalmente (ogni 10 anni, in media), anche nel fiume.

Durante i primi minuti dell’esondazione – quando il fiume transitò in alcune case del friuli occidentale e dentro l’atelier riuscìi a sostenere con le braccia buona parte del blocco sbozzato, mentre i sacchi e la base della struttura verticale cedevano, per poi coricarla – di necessità in non troppi secondi – su un vecchio tavolo da falegname a pochi cm dal punto di caduta. Sullo stesso tavolo poco tempo prima avevo preventivamente sistemato la lavatrice, a prevenirne danni annunciati.
Dopo le operazioni della sicurezza locale, rimossa l’acqua da casa, asciugammo per giorni libri, dipinti, qualche lacrima, e lasciai il blocco chiuso nei suoi sacchi di cellophane. Collocai dopo l’ammasso rimasto di nuovo in posizione verticale, come originariamente stava, a fianco del tavolo e della lavatrice. Lì rimase un anno, ‘a stagionare’.

Ho ripreso quel lavoro abbozzato a fine 2011, modellando su una creta inaridita e indurita dal tempo. Mi riuscì di completare, ancora, in modo che ricordo poco, quando non me l’aspettavo, la fase 2. Come? Devo ammettere che non lo so. E’ raro che riesca a capire come certe fasi creative si realizzino. Questa è forse l’informazione più interessante, per la neuroestetica.
Nel corso di 2 settimane di ferie, nel luglio 2012 conclusi la svuotatura, con difficoltà, perché l’argilla era ormai eccessivamente indurita dal tempo.
Quest’ultima frase è un messaggio chiaro e impagabile all’inconscio, o meglio contro l’inconscio forse, che le sculture forniscono, a volte in ogni fase di lavorazione, a chi svolga questo genere di attività. E’ possibile infatti che io mi sia eccessivamente indurito e inaridito, nello stesso tempo; che la modellazione non mi consenta più di esprimere, che io non senta, o peggio che senta un irrimediabile inaridimento di capacità di legami umani in me e nel mondo. E’ possibile che, tramite la scultura, il subconscio avverta me, e chi voglia accettare i messaggi che alcune sculture veicolano, di questo grave rischio personale e globale.

La cottura finale produsse danni alla scultura e mi costrinse ad un lungo lavoro di restauro, seguito da una ripetuta (incompiuta) sperimentazione di patinature (fase 9). Come a rimedio della irreversibilità del danno della troppa acqua prima, del troppo fuoco poi. Il risultato è in vista, con i suoi limiti.

Ultimi articoli

Nota bibliografica

  1. Inventario degli emissari del papato del 19 febbraio 1564, citato in A. Gotti Vita di Michelangelo Buonarroti narrata con l’aiuto di nuovi documenti, 2 voll. Firenze 1875, vol.I, pp.335-336;
  2. L.Salerno, E.Paribeni Inventario dei beni del marchese Giuseppe Rondanini in Palazzo Rondanini, Roma, 1965;
  3. AAVV L’ultimo Michelangelo. Disegni e rime attorno alla pietà Rondanini Silvana Editoriale 2011;
  4. Semir Zeki La visione dall’interno. Arte e cervello. Bollati Boringhieri 2003 e 2007 – titolo originale: Inner vision. An exploration of art and the brain – Oxford university press NY 1999;
  5. Umberto Baldini, Michelangelo scultore, Rizzoli, Milano 1973;
  6. Antonio Forcellino Michelangelo Buonarroti. Storia di una passione eretica. Einaudi 2002;
  7. Albert Schweitzer Filosofia della civiltà,
    (S.Paolo Edizioni 2002; nuova edizione, 2014?);
  8. Ernst Gombrich Arte e progresso Einaudi, Torino 1986;
  9. Rudolf Wittkower La scultura raccontata da Rudolf Wittkower trad. it. di Renato Pedio, Einaudi, Torino 1985 e 1993.
  1. Inventario degli emissari del papato del 19 febbraio 1564, citato in A. Gotti Vita di Michelangelo Buonarroti narrata con l’aiuto di nuovi documenti, 2 voll. Firenze 1875, vol.I, pp.335-336;
  2. L.Salerno, E.Paribeni Inventario dei beni del marchese Giuseppe Rondanini in Palazzo Rondanini, Roma, 1965;
  3. AAVV L’ultimo Michelangelo. Disegni e rime attorno alla pietà Rondanini Silvana Editoriale 2011;
  4. Semir Zeki La visione dall’interno. Arte e cervello. Bollati Boringhieri 2003 e 2007 – titolo originale: Inner vision. An exploration of art and the brain – Oxford university press NY 1999;
  5. Umberto Baldini, Michelangelo scultore, Rizzoli, Milano 1973;
  6. Antonio Forcellino Michelangelo Buonarroti. Storia di una passione eretica. Einaudi 2002;
  7. Albert Schweitzer Filosofia della civiltà,
    (S.Paolo Edizioni 2002; nuova edizione, 2014?);
  8. Ernst Gombrich Arte e progresso Einaudi, Torino 1986;
  9. Rudolf Wittkower La scultura raccontata da Rudolf Wittkower trad. it. di Renato Pedio, Einaudi, Torino 1985 e 1993.

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Omaggio alla pietà Rondanini di Michelangelo Buonarroti
Omaggio alla pietà Rondanini di Michelangelo Buonarroti
Omaggio alla pietà Rondanini di Michelangelo Buonarroti
Omaggio alla pietà Rondanini di Michelangelo Buonarroti
Omaggio alla pietà Rondanini di Michelangelo Buonarroti
Omaggio alla pietà Rondanini di Michelangelo Buonarroti

2.

Una scienza per interpretare Michelangelo Buonarroti (M)?
Una interpretazione alternativa a quella di Zeki

(Questo articolo è dedicato all’amico e Collega Vittorio Gallese, giacché nel 2013 a Parma non siamo riusciti a incontrarci, e neanche dopo).

Negli stessi giorni di ferie di cui ho appena parlato, quelli del restauro, ho avuto anche modo di studiare su vari testi un approccio nuovo (2012-2013), ricco ed estremamente interessante, all’arte visiva, che mi auguro vivamente si diffonda presto nel mondo dell’arte e in quello della scienza.

Tra le 2 grandi multi-dimensioni, arte e scienza, … beh, il discorso sarebbe lunghissimo, va qui abbreviato ammettendo che c’è molta difficile strada da fare per evitare abbagli, in ambito neuroestetico. I peggiori possono essere i miei.
Non è detto che abbia capito a pieno l’oggetto di studio di questa scienza. Nessuna delle due dimensioni, estetica e scientifica, può forse eludere la propria incompletezza. L’una ha bisogno dell’altra, per ricordare che una comprensione ampia della mente e dell’azione umana è lontana dalla coincidenza tra intuizione empatica propria dell’una e giudizio o diagnosi esplicativa propria dell’altra. Il percorso dello scienziato parte da ipotesi creative che esigono osservazioni e sequenze logiche, che nel caso dell’incompiuto di M non sono minimamente dimostrabili, e se si ritengono tali, divengono pre-giudizi.

Una serie di ipotesi neuro estetiche che il lavoro di questa mostra e la precedente mostra a Parma (per certi versi, una mostra incompiuta) mi suggeriscono è qui abbozzato.

Credo che l’arte non sia solo ricerca di invarianti/costanti, ma anche del contrario, di varianti e di incostanti, e forse qualcosa di più; che sia definibile ancora oggi con l’antropologo Franz Boas (inizio ‘900), l’uso di materiali per esprimere percezioni coscienti. E che la comprensione dei problemi percettivi si avvalga di comprensione intuitiva ed empatica in senso lato, anche ma non solo di logica, e di ponti analogici tra forme contesti e contenuti. In scultura superfici e forme ambivalenti-polivalenti consistono in esplicite variazioni / incostanti di gioco di luce e ombra – percettibili solo in alcune condizioni di incidenza di luce, che possono perdersi del tutto sia in successive posizioni, sia in successive fasi di modellazione; sia, ineludibilmente, col tempo che altera anche i materiali più resistenti (cfr. M.Yourcenar Il tempo , grande scultore ). L’armonizzazione tra le forme e i contenuti simbolici in una scultura, può corrispondere, eccezionalmente, ad una comprensione maggiore della realtà e dell’umanità/disumanità e della biosfera morente cui apparteniamo. Come sembra, nel caso della pietà Rondanini di Michelangelo.

Neuroestetica.

Le conoscenze sul funzionamento del cervello e sul cosiddetto cervello visivo in particolare, sono ancora ritenute dai neuro scienziati, approssimative e lacunose ma, nello stesso tempo molto superiori a quelle di pochissimi decenni fa (cfr. Semir Zeki, 1999).

Tanto superiori, che sembra ammissibile il poter finalmente dire qualcosa di non aleatorio, sulle basi psicobiologiche dell’esperienza estetica. L’interessante lettura di testi di neuro estetica mi convince che il progresso tecnoscientifico certamente è avvenuto ed avviene ogni giorno, ma non è detto che la comprensione dell’arte migliori per questo. Anzi, per analogia tra estetica ed etica, si deve ragionevolmente temere che il progresso che crediamo di aver raggiunto, riguardante (cfr il pensiero di Albert Schweitzer) l’aspetto materiale della nostra vita, non corrisponda ad una reale crescita di comprensione estetica, etica e civile, al contrario. Il progresso materiale e tecnico ci porta all’oblio di grandi opere d’arte e del loro significato semplicemente umano, ha posto problemi etici nuovi e per nemesi, enormi problemi organizzativi e materiali, generato anche pesanti regressi, che ora come non sembriamo in grado di affrontare e risolvere.
Gli aspetti più complessi della mente restano sul versante meno dimostrabile dell’esplorazione, che non è del resto neurofisiologico, ma psicologico e dell’inconscio collettivo (cfr. Carl Gustav Jung, L’uomo e i suoi simboli; Luigi Zoja, Contro Ismene, e Storia dell’arroganza )

Se le arti visive dipendono dal funzionamento del cervello umano, dovrebbe essere possibile esprorarle meglio oggi, e approfondire in termini cognitivi quel che vi è di comune tra la mente di chi realizza opere d’arte e quella di chi ne fruisce. Ma occorre disfarsi di pre-giudizi, avvicinare più Persone all’arte, senza timore di non essere all’altezza, di chissà quale idolo o magia.

Personalmente, non ritengo vi sia una differenza sostanziale tra chi fa e chi fruisce dell’arte, e credo che questo valga oggi come sempre valse in passato. Sbaglia chi attribuisce ancora agli artisti una superiorità che certamente essi non hanno come categoria. Il genio è in ogni ambito artistico e anche in ogni mestiere rara eccezione, uno in un campo ogni centinaio di anni ad andar bene, e anche il talento specifico per qualche manualità non è troppo frequente in nessun mestiere. Ma pretendere dalle opere d’arte una sacralità che non avvicina la comprensione dei gesti più naturali, come modellare, è sbagliato, come la comoda e pigra affermazione ‘io l’arte non la capisco’.

Chi collezioni opere d’arte può ammettere che il bisogno di arte, se non è bisogno di comprensione e compassione, è un gran lusso, e che nella migliore ipotesi gli oggetti che suggeriscono percezioni e forme siano buone occasioni di meditazione, o buoni risultati di meditazioni fatte, non le ennesime cose che, come il denaro, come tutto, val la pena di possedere. Se mai, è vero il contrario: possedere non serve affatto a comprendere. Guardare un’opera d’arte visiva è largamente sufficiente allo scopo di comprendere qualcosa. Qualcosa di un essere umano appartenente ad un dato spazio tempo e cultura che le abbia fatte, o che riguardi molti esseri viventi/senzienti insieme.

Comprensione, non certo possesso, è sempre l’unica difficile sfida dell’arte e di tutte le arti.

Dipingere un artista con un’aura di magia invece perde la sfida: è un modo come un altro per distrarre il pubblico da quello che è piuttosto un compito e una funzione cruciale, svolta in vario grado dagli artisti in ogni tempo. Pensare in modo divergente, diverso e controcorrente, evocare modi differenti di essere e percepire la stessa realtà che tutti abitiamo, con le positive o negative conseguenze che questo può determinare. Alla lunga e a ben vedere questa è la funzione di mantenimento dell’apertura mentale massima possibile, pericolosa forza sociale critica, libera, indipendente. Sia auto che etero diretta, la funzione di critica sociale e culturale può realizzarsi anche tramite l’arte, ma non solo.

Chi visiti una mostra non dovrebbe essere mai indotto a pensare che ‘certi modi di essere e fare’ quindi siano esclusivi degli artisti, o corre il rischio che la mostra lo lasci all’uscita più passivo che all’ingresso, meno profondamente appagato e sicuro di quando è entrato. Peggio, che ci si senta come con la televisione e il computer poco o tanto dispensati dal fare alcunché, per cambiare la insopportabile marmellata mista a melma, l’ipocrita malvagità iniqua della realtà circostante.

Qualcosa di nuovo da fare invece, la mostra, sperava proprio di suggerirgli. Qualcosa di questo gemere: Cerca di muoverti veramente a compassione, non solo in animo, cioè di agire per qualcuno che umanamente suscita la tua compassione, e troverai là dove stai cercando gioie da contemplare e germogli di giustizia in fiore.

Negli ultimi 15 anni, gli sforzi di descrivere con più chiarezza le fondamenta neurobiologiche dell’esperienza estetica umana hanno dato vita a innumerevoli dibattiti, oltre che alla nuova disciplina denominata neuroestetica. Ritengo che la neuro estetica, presunta branca della neurologia, sia una buona occasione per far cadere alcune mitologie sull’aura che circonderebbe opere d’arte ed artisti. Artisti molto migliori di me hanno espresso, a modo loro, lo stesso auspicio, parlando direttamente attraverso i media (cfr. Gerard Richter, Anselm Kiefer, …).

Semir Zeki (d’ora in poi, Z) spiega che … abbiamo bisogno della vista come degli altri sensi per acquisire una conoscenza del mondo, e che il vedere è certamente anche un’elaborazione creativa che richiede uno sforzo (disse a suo tempo la stessa cosa Henry Matisse) dopo di ché definisce cervello e visione in modo da giustificare un approccio scientifico alle opere d’arte. Se l’arte è una ricerca-sperimentazione di e/o su caratteristiche specifiche e stabili del mondo, gli artisti fanno esperimenti, sul e col loro cervello, con questo proposito: cercare forme, sperimentare tecniche. In questo senso, afferma Z, gli artisti sarebbero assimilabili ai neurologi. L’analogia tra artista e neurologo a me sembra poco convincente, e perfino pericolosa, più che per l’arte, per la neuro estetica: disciplina nascente, che deve affrancarsi da mode e modi di pensare non necessariamente utili alla comprensione, scientifica o meno, delle menti nei loro aspetti creativi. Aspetti etici e psicologici della nostra attività mentale che restano di impossibile inquadramento con gli strumenti propri delle scienze esatte, di derivazione galileiana. Etica e psicologia non sono scienze, ma senza di esse la comprensione dell’arte è impensabile. Sono in realtà le scienze, l’etica e la psicologia che chiedono di essere ripensate tramite la creatività artistica.

L’arte sarebbe definita (Z) come ricerca di invarianti tramite selezione di elementi essenziali da una gran massa di dati, e:
a) consente di affrontare un aspetto peculiare dell’arte di M
b) consente di ricondurre i processi creativi, in particolare quelli relativi alle arti visive, a una funzione biologica.

Personalmente rifiuto di generalizzare un principio (quello della ricerca di costanza, o di invarianti), che giustifichi o peggio dimostri valido ricondurre i processi artistici ad una funzione biologica, e trovo molto difficile ricondurre il non finito all’idea di costanza implicita. In questo modo, ci si può incagliare in analisi che intendono spiegare ma non comprendono. Tuttavia, poichè un significato biologico è ipotizzabile (tanto quanto quello filosofico-metafisico che dominava in passato ), si può accettare questa sfida, chiedersi quale significato biologico dell’arte sia più convincente.
Partendo da (a), vorrei esemplificare il rischio di un approccio unilaterale alla neuro estetica, che in quanto disciplina nascente merita certamente rispetto.

Le parti inferiori finite della coesistono con quelle superiori sbozzate e non finite, e senza dubbio si intravedono 2 volti della Vergine e forse 2 anche del Cristo. Gli arti superiori destri sono indubbiamente 2 e uno è completamente staccato dal corpo, tanto da risultare appartenere ad un Ente terzo. L’incostanza è esplicita. L’abituale lotta colla materialità del corpo è peraltro risolta dall’unità complessiva delle forme, e dal comporre un lavoro in itinere su un altro lavoro in itinere, come M fece in altri casi.

Infine, la forza inquietante del non finito potrebbe essere imputabile alla ridotta libertà e alla contraddizione di coesistenti forme, percezione di plurime reali direzioni delle superfici e della struttura. Una figura resa dalla vibrazione della gradina consente a chi guarda di cogliere, contemporaneamente, più espressioni di un volto, più direzioni di un gesto e non è questa costanza né l’indecidibilità (a ben vedere falsa) ma al contrario una potentissima, volubile, incostanza esplicita.

La variante che concomita, il pluriverso squadernato, il passaggio dall’anatomico realistico all’espressionistico gotico (cfr Henry Moore) che coesistono spiegano la forza delle innovazioni formali incompiute compresenti nella pietà Rondanini, più che la funzione biologica della ricerca di costanti.
La lotta in cerca di perfette contemplazioni, è un continuo scavare e intravedere, indefinite possibili forme: la contraddittoria apertura del non finito di M. non convince come chiara e fresca allusione a costanti. Arturo Martini definisce addirittura le pietà di M trasandate per la capacità di trasmettere moto, scivolamento, cambiamento.

Chi guarda l’opera, aggiunge alla cognizione del non finito la coerenza esistenziale e simbolica, perfino letterale (misticismo, desiderio di in-finito) dell’opera di M. L’invito al fai da te cognitivo, derivante dalla percezione del non finito, consegue alla spinta necessaria a liberarsi, cioè alla prigione, ad una costanza che se si coglie, imputabile al blocco pre-scultoreo, non alle libere possibili interpretazioni. Che sono sempre possibili, ma in un ambito non scientifico, dove una interpretazione e un’ipotesi dovrebbe prevalere in base a prove fattuali, storiche oltre che scientifiche. Almeno, a me sembra.

In questo modo ho chiaramente e paradossalmente interpretato, in modo forzato e soggettivo. Ho espresso il mio modo di leggere, da tutt’altro lato (Other side), il non finito michelangiolesco, anche per suggerire il rischio del dito che indichi la linea. Forte nel caso si indaghi l’attività mentale, in quanto questa indagine deve avvenire, diversamente da tutte le altre, attraverso l’oggetto dell’indagine, e la nemesi garantita è appunto la soggettività in approdo, anziché in ipotesi.

Nota bibliografica

10. Susan Sontag Sulla fotografia
11. Susan Sontag Davanti al dolore degli altri
12. James Hillmann Politica della bellezza

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Omaggio alla pietà Rondanini di Michelangelo Buonarroti
Omaggio alla pietà Rondanini di Michelangelo Buonarroti
Omaggio alla pietà Rondanini di Michelangelo Buonarroti
Omaggio alla pietà Rondanini di Michelangelo Buonarroti
Omaggio alla pietà Rondanini di Michelangelo Buonarroti
Omaggio alla pietà Rondanini di Michelangelo Buonarroti

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